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Noi poveri soldati nell’esercito dello «stile di vita»

L'anno scorso sono tornato al Cairo, dove avevo vissuto nel 1985, e sono andato a rivedere il mio vecchio quartiere popolare di Bulaq, la mia viuzza e la finestra alla quale mi affacciavo tutte le mattine. Anche adesso, come allora, la gente è povera, ma tutti hanno il telefono cellulare, e di solito si tratta di telefono dell'ultima generazione. Senti il canto di un muezzin e il più delle volte scopri che è una suoneria.
Tutti gli uomini amano sentirsi rappresentati dai simboli delle classi sociali superiori alla loro. È sempre stato così e secondo me sarà sempre così. A nessun impiegatuccio piace portarsi addosso i simboli della propria condizione, che lui stesso - salvo rari casi - depreca.
È pur vero che anni fa nessuno poteva permettersi simboli (e quindi in qualche modo anche un tenore di vita) superiori a quelli concessi dalla sua condizione, mentre oggi è quasi naturale che il bambino riceva l'iPhone in dono per la Cresima, e non un telefono cellulare da venti euro, che pure per telefonare va benissimo.
Si dice che l'industria crea bisogni fittizi. Certo che sì, lo sanno tutti: l'industria deve avere un mercato, e il mercato si fonda sulla domanda e sull'offerta. Ma la novità non è questa: l'invenzione dei bisogni è un'arte vecchia come il mondo.
La novità sta a mio parere in una progressiva militarizzazione dell'esistenza, che abbiamo subito tutti, tanto che anch'io desidero telefonini sempre più sofisticati (che poi non so usare) e computer sempre più belli (di cui non ho bisogno). E sono desideri veri, e forti: si può desiderare un iPhone con la stessa intensità con cui i santi desiderano la salvezza dell'anima.
Con «militarizzazione» intendo il fatto che, da almeno vent'anni a questa parte, tutti noi, chi più chi meno, consideriamo il nostro corpo e il nostro tempo come altrettante superfici da rivestire il più possibile di segni distintivi, che sanciscano la nostra appartenenza a questo o quel gruppo. Questo è vero per tutti, non solo per i giovani. Il tipo di jeans, il telefono cellulare, il tipo di automobile, la marca degli occhiali sono alcuni di questi simboli, come lo sono il profumo che usi o lo shampoo con cui ti lavi i capelli.
Tutti noi apparteniamo a qualche «esercito»: dei rolexisti, dei suvisti, degli armanisti, e così via. E ogni esercito si caratterizza non solo per i prodotti che usa, ma per lo stile di vita (lifestyle) che i suoi simboli implicano.
Il mercato e la finanza si sono accorti da tempo che tutte queste superfici corrispondono ad altrettante potenziali aree di guadagno, e favoriscono la tendenza, che di per sé c'è sempre stata. Così, se un tempo nessuna banca avrebbe mai finanziato l'acquisto di un Suv, oggi questo è possibile. Non ho studiato l'argomento, ma dev'esserci qualcuno che ha pensato e teorizzato l'idea secondo cui l'uomo è socialmente utile a seconda della possibilità che gli è data di appartenere alla simbologia delle classi elevate.
È l'ultima frontiera della democrazia e dell'homo œconomicus. Affinché Armani o i Suv continuino a essere prodotti e messi sul mercato è necessario che un numero di persone sempre maggiore, possibilmente tutti, possano permettersi questi oggetti del desiderio. Qualcuno deve aver pensato che fosse un modo di fidelizzare i cittadini, ma forse è solo un moltiplicatore di scontentezza e, sotto sotto, di violenza.


Perché va da sé che non tutti, nemmeno col più spericolato dei mutui, possiamo permetterci il Suv della Porsche o una villa in Costa Smeralda, però possiamo sempre usare lo stesso telefonino di quelli che possiedono il Suv della Porsche, portare le sue scarpe e frequentare d'estate le stesse spiagge esotiche, bere i loro stessi aperitivi. E se non passeremo mai la notte con Naomi Campbell, se siamo fortunati possiamo trovarne una che le somiglia, e magari anche più giovane e meno capricciosa. Si chiama lifestyle.

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