Non c’è spazio per la redenzione nel cupo universo di «Ersilia Drei»

Ma cosa è accaduto alla povera Ersilia Drei, vittima di circostanze eccezionali che l’hanno portata a galla della cronaca (e della penna spietata di Pirandello) nel lontano 1922? Sappiamo che per amore del suo datore di lavoro, un Console unicamente preoccupato della sua carriera, abbandonata a se stessa la bimba che l’uomo le aveva affidato, è stata dichiarata responsabile della sua tragica fine. Sappiamo inoltre che è stata sedotta da un altro individuo spregevole, un tenente di vascello al quale la moglie del Console, sua implacabile rivale, aveva affidato l’incarico di comprometterla. E sappiamo infine che la poveretta - vittima designata di quella borghesia dall’autore bollata come sacrilega - prima di tentare il suicidio aveva narrato a un cronista una versione edulcorata del proprio iter doloroso. Allo scopo di ritrovare, nella morte vissuta come espiazione, quella dignità che la vita le aveva brutalmente negato. E che nessuno, tantomeno uno scrittore fallito come Ludovico Nota, è in grado di ridarle una volta tornata in vita. Tanto da autorizzare, stavolta, il nuovo gesto fatale che concluderà la sua tormentata esistenza.
«Vestire gli ignudi», scritto da Luigi Pirandello nel ’22, dramma pesantemente datato cui tuttavia, nelle ultime stagioni, si sono interessati con splendidi esiti dapprima Castri e in seguito Sepe, alla ricerca di un «vehicle» strappalacrime ad uso della Melato. Che oggi un regista geniale e controcorrente come Walter Manfré ha esumato per Vanessa Gravina. Reduce dal successo di «Signorina Giulia» dove impersonava un’altra suicida, ma di stampo upper class, impersona da un anno sui palcoscenici di mezza Italia con ampi consensi di pubblico (oggi ultima replica al San Babila).
In questa lettura di impressionante rigore che non risparmia nulla e nessuno, accentuando semmai il lato onirico che sotto i nostri occhi si tramuta in incubo freudiano, la Gravina offre un’interpretazione distaccata e commovente. Come se un autore fantasma l’avesse designata, da un altro spazio e da un altro tempo, a offrire un ritratto in nero di quella sciagurata fauna femminile, tra mercato del sesso e ansia nevrotica di un’impossibile redenzione.
In un contesto tetro, quasi cimiteriale, che Manfré esalta trasferendo questo dramma da camera abitato da marionette al limite della caricatura nell’inferno senza scampo del thriller. O peggio ancora nell’universo claustrofobico del Sartre di «A porte chiuse». Sfida impossibile?, chiediamo alla Gravina. Che con impeccabile cortesia ci smentisce asserendo che, a parer suo, questa storia che sembra uscita da un romanzo di Liala non è poi così «vieux jeu» come appare a prima vista.

«Basti pensare - dichiara polemica - che ai tempi di Ersilia per le donne costrette a guadagnarsi la vita non si apriva nessuna possibilità di riscatto se non il matrimonio con un ricco rampollo della borghesia. Chi se le sognava, negli anni Venti, una sindacalista del calibro di quella che impersono io nella quarta serie di “Un caso di coscienza”, in onda domani sera su Rai Uno? La loro vita era già una morte in vacanza».

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