Il giorno dopo il crash per Walter Veltroni è stato come la scoperta dell'alba, che è sì il titolo del suo ultimo libro, ma anche lo stupore di chi si è risvegliato da una fiaba che per troppo tempo aveva raccontato senza pensare che poteva non piacere a tutti e, dopo tanti ciak riusciti, qualcuno avrebbe detto «stop, questa sceneggiatura non funziona più». Il sindaco di Roma si sente disturbato per le critiche che gli sono piovute addosso dopo l'incidente della metropolitana. Non solo dalla politica, non solo dal centrodestra, ma soprattutto da parte dei cittadini che letteralmente non ne possono più. Era il minimo che potesse accadere, un fatto naturale per una democrazia, ma non a Veltronia, città di splendori senza miserie, fasti senza nefasti, panem et circenses.
Piazza Vittorio il giorno dopo è davvero il sotto-sopra di questo mondo. In superficie la vita scorre, la Roma del Veltroni in versione migrantes qui è al suo apice: la Chinatown dell'Urbe è una città nella città, uno Stato nello Stato. L’Impero Celeste ha le sue regole, comunità più silente che pacifica, gente che commercia e in bottega traffica. Roma non è una e neppure trina, sono tante.
Roma multietnica, quella del Veltroni che dopo aver scritto che forse Dio è malato si acconcia da papa laico e dialoga nientemeno che con le religioni. Veltroni che va in diretta su Al Jazeera e dal trono del Campidoglio rassicura tutto l'Islam e dal balcone s’affaccia per un flash con la star di turno.
Roma come un set cinematografico. Regista, sceneggiatore, prim’attore Veltroni.
Che stridore con la cronaca vera, con i fatti di Piazza Monte delle Capre, quartiere del Trullo. Un bar frequentato da romeni assaltato da italiani, una vendetta del giorno dopo a pistolettate. Perfino voci sul sequestro lampo di un bambino. Roba da gangster.
Che contrasto con lo spaccio di droga e l’hashish fumato en plein air nei giardini del quartiere di San Lorenzo, dove giocano i bambini.
Non siamo di fronte a un album, ma all’opera enciclopedica del male di vivere. Sottoterra le lamiere contorte non ci sono più, il clangore e le urla spariti. Resta il dubbio che il crash di Roma sia stato molto di più di un tamponamento tra treni. È un avvertimento per Veltroni e una conferma per chi non si è mai fatto affascinare dallo stile affabulatorio di un sindaco abile, bravo nel sollecitare e solleticare l'immaginario, ma non infallibile e soprattutto criticabile e discutibile. E non c’è niente di eretico nel farlo.
Quel groviglio di lamiere era in fondo la metafora della città-ingorgo, trappola del cittadino che sa quando parte e quasi mai quando arriva. Due linee di metropolitana sotto stress dove il semaforo rosso diventa «permissivo» (siamo all’ossimoro della sicurezza), un dedalo di strade dove il parcheggio abusivo è legge, un piano della circolazione che fa venire il mal di testa. Provare per credere: bastano due gocce di pioggia e il serpentone catalizzato diventa un drago impazzito. Quando un milanese arriva a Roma scopre che i suoi lamenti per le code in viale Monza sono musica classica rispetto al rock metallaro che s'ode sulla Tiburtina. Se Rutelli è riuscito a passare alla storia come il sindaco in motorino, Veltroni lascerà tracce visibili nelle statistiche che nessuno legge ma fanno tanto male al vivere quotidiano.
Nessuno, perché Roma sembra non aver memoria, il malessere narcotizzato dalle feste, la coscienza collettiva insonorizzata dall’osanna dei media. È Veltronia, dove anche una notte nera diventa una notte bianca.
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