Mi piace quello che scrisse Montanelli di Gabriele Albertini nel 1977: «Dei tre cavalli che corrono per Palazzo Marino, il meno interessato alla gara mi sembra Albertini. Mi ricorda Ribot, che a prima vista nessuno avrebbe dato per vincente, non avendo l'aspetto del grande galoppatore di classe, che quando veniva accompagnato al paddok per essere mostrato al pubblico si vedeva chiaramente che era infastidito da tanto clamore e attenzione. Ribot appariva quasi neghittoso e mostrava una certa insofferenza per questa esibizione. Poi scendeva in pista, correva da par suo, vinceva con tre lunghezze di distanza e se ne andava ancora più seccato di prima per lacclamazione della folla».
A distanza di anni questo ritratto così preciso, ironico, assolutamente perfetto nel descrivere un uomo insolito e imprevedibile che sarebbe diventato sindaco di Milano per nove anni, piace ancora a Gabriele Albertini, che ammette di non essere cambiato, di essere ancora un po' Ribot. «Ma c'è qualcos'altro che scrisse di me l'amico Indro e che mi piace ancora di più, ecco lo ricordo a memoria: Quest'uomo dall'apparente remissività, persino umile, che mai alzerebbe la voce, o pesterebbe il pugno sul tavolo, di una ingenuità quasi fanciullesca - ricordate quando si mise in mutande alla sfilata di Valentino? - è un duro che si spezza ma non si piega, né tanto meno si impiega».
Pare che Montanelli la conoscesse bene, onorevole Albertini.
«Diventammo amici subito, dopo esserci conosciuti a una cena e aver simpatizzato. In qualche modo ci assomigliavamo, stesso caratteraccio, stessa insofferenza alle esibizioni pubbliche, stesso odio per intrighi, bugie, poteri corrotti, chiacchiere inutili. Ho festeggiato con lui e sua moglie il suo ultimo compleanno, con la mia compagna andammo a casa sua per un pranzetto e per brindare insieme, poi con Indro mi sedetti sul divano per vedere una partita di calcio alla tv e lui poco dopo si addormentò. Quel vecchio grande uomo assopito mi fece una certa impressione, mi commosse, ce ne andammo senza salutarlo per non svegliarlo, gli detti un bacio sulla fronte e gli lasciai un biglietto dove gli dicevo che in quella impronta c'era tutto il mio affetto».
Montanelli sarebbe d'accordo con lei nella sua rinuncia a candidarsi nuovamente a sindaco, come in molti invece vorrebbero?
«Penso di sì, perché i motivi sono validi. Primo, non voglio tagliare la strada a Letizia Moratti. Secondo, se anche volessi, non avrei i cinquanta milioni di euro che, come ho sentito dire, suo marito è disposto a mettere a disposizione per questa corsa. Sono deputato europeo, presidente della più prestigiosa Commissione del Parlamento Europeo, quella degli Affari Esteri, questo mi basta. Ho anche sessant'anni e la poltrona di sindaco è fra le più impegnative, stancanti, difficili e in qualche modo pericolose. Sei molto esposto e devi guardarti le spalle. Come mi ha detto una volta Andreotti, l'invidia corre sul filo».
Cosa ne pensa di questa Expo di cui tanto si parla e che sembra una matassa così intricata da rendere difficile scioglierla?
«Brava la Moratti che è riuscita a portarla a Milano, ma ora ci sono troppe decisioni da prendere e troppe persone interessate a metterci il becco. Mancano cinque anni soltanto allappuntamento e non vedo ancora le ruspe
».
Durante i nove anni in cui è stato sindaco lei ha avuto incontri importanti, ha conosciuto personaggi speciali. Da chi è rimasto più colpito?
«Rudolf Giuliani, che è stato sindaco di New York, è un uomo che ho sempre ammirato, per la determinazione, le intuizioni, la voglia di fare e fare bene. Quando ci siamo conosciuti è scattata subito una reciproca simpatia. Devo dire che quando feci la famosa foto in mutande alla sfilata di Valentino, mi capitò di pensare a lui che mi aveva raccontato di essersi vestito da donna per una festa di beneficenza. Se il sindaco di New York si è vestito da donna, quello di Milano può mettersi in mutande».
Oddio, non è la stessa cosa. Ma mi racconti di altri incontri.
«Tre sono state le persone che mi sono rimaste particolarmente nel cuore: Montanelli, il cardinale Carlo Maria Martini e il maestro Muti. Ricordo una telefonata con questo grandissimo direttore d'orchestra, come pochi ce ne sono al mondo, così accorata per via di una critica fatta a un suo lavoro. Non mi capacitavo di sentirlo così disperato, lui che era idolatrato ovunque. Mi colpì questa sua fragilità che è di molti grandi personaggi e che è anche la mia. Io sono stato per anni in analisi per risolvere il mio complesso di Edipo, avevo bisogno di chiarirmi le idee, di trovare il mio giusto equilibrio. Sono l'ultimo di quattro figli, ho due sorelle e un fratello, sono nato quando mia madre aveva 42 anni, 42 anni di sessant'anni fa, quindi fui accolto come un miracolo, amato, coccolato, viziato. Quando mio padre morì fu mio fratello che a soli 23 anni lasciò l'università per prendere in mano le redini della azienda di famiglia di pressofusioni di alluminio, permettendomi così di finire gli studi di Giurisprudenza e fare la carriera che ho fatto. Gliene ho reso merito quando venne a Bruxelles a trovarmi insieme a tutti i nostri dipendenti, gli presentai i colleghi di diversi Paesi e gli feci visitare le aule del Parlamento Europeo. In quella occasione gli dissi davanti a tutti che molto di quello che ero diventato lo dovevo a lui.Ricordo che pianse».
È per colpa di questo complesso di Edipo che non si è mai sposato, che è sempre apparso come l'uomo più solo che le istituzioni milanesi conoscano?
«Chiariamo intanto che solo non lo sono mai stato, ho sempre avuto delle compagne con le quali ho avuto rapporti anche piuttosto lunghi. Al contrario di quello che ha sempre pensato Bossi, prima di conoscermi, cioè che fossi gay, sono stato, ormai nella lontana giovinezza, un play boy piuttosto indaffarato, anche se non ho mai esibito nulla. Da ragazzo ero piuttosto belloccio, avevo i capelli neri, una certa agiatezza, la Porsche, insomma ho avuto anni piacevolissimi. Ma il problema era che i rapporti con le donne correvano su due binari ben distinti: il sesso da una parte, l'affetto dall'altra. Mi riusciva difficile abbinare le due cose. Quando incontrai la donna che mi sembrava coinvolgermi in entrambi i campi le chiesi di sposarmi ma la cosa non andò in porto».
E ora come siamo messi? C'è una compagna nell'ombra?
«Si, viviamo insieme da qualche tempo felicemente e quest'anno ci sposiamo».
Non posso crederci. Deve essere una donna davvero speciale per averla fatta capitolare.
«A luglio compio sessant'anni, ho davanti l'ultimo quarto della mia vita ed è arrivato il momento di realizzare tutto quanto non ho fatto prima. Anche se è tardi per esempio per diventare padre, ma è andata così e avere un figlio mi ha sempre in qualche modo spaventato: una responsabilità enorme, un impegno che mi sembrava più grande delle mie possibilità. Io che mi sono sempre sentito più figlio che padre, così legato a mia madre, al suo affetto. La mia compagna è il mio rifugio felice, abbiamo una casa accogliente, con bei terrazzi pieni di fiori e una piccola serra di cui mi occupo».
Ma nessuno ha mai visto questa sua compagna, non la porta alle cene, alle riunioni, nei suoi viaggi. Non si sentirà troppo esclusa dalla sua vita?
«È lei che vuole così. Le piace aspettarmi a casa e io sono felice di sapere che si occupa delle nostre cose, che quando rientro ho il suo sorriso, che la notte dormirò serenamente con lei e allungando la mano troverò il suo corpo, potrò darle una carezza, riceverla. Ha qualche anno meno di me, è stata moglie di un giornalista, non ha figli, ha saputo coniugare bene quello che prima non riuscivo a conciliare. Il nostro sarà un matrimonio molto riservato, senza nessun clamore, come piace a entrambi».
So che è piuttosto sportivo, che fa ginnastica alle sei di mattina, che ha partecipato a tre maratone milanesi, ha volato su un F16, ha scritto due libri, Nella stanza del sindaco e Sindaco senza frontiere che ha vinto il premio Capri San Michele 2009, che ama parlare latino e legge Borges, Marquez, la Yourcenar e ha per consigliere Freud che l'ha aiutata a districarsi nei meandri della sua psiche e per finire adora viaggiare, meglio se su rotte insolite. Eppure a vederla sembra il ragionier Tibiletti, nulla lascia intuire che sotto quest'apparenza totalmente innocua si nasconda un duro della Madonna, uno che non ha mai detto sissignore, che non si è piegato a nessuno, che ha fatto per nove anni il sindaco di una città difficile come Milano, uscendone indenne.
«Lo so, sono una sorpresa, anche per quelli che sul lavoro pensavano di farmi fesso. Non ho diviso la torta del potere con nessuno, anche perché non mi piacciono le torte, nel senso di accaparramenti, concessioni, agevolazioni, intrighi vari».
Immagino che abbia seguito la faccenda un po intricata di Gino Strada e del suo ospedale. Mi piacerebbe sapere che cosa pensa di quest'uomo, amato e odiato in eguale misura.
«Non dò giudizi perché non è il mio compito e non conosco abbastanza Gino Strada. Le racconto soltanto del mio incontro con lui a Kabul dove, come lui stesso mi aveva chiesto in precedenza, volli visitare il suo ospedale e parlargli. Arrivai con un aereo militare, quando mi presentai accompagnato da alcuni ufficiali, i collaboratori di Gino Strada mi dissero subito che militari non ne volevano. Quando spiegai che ero arrivato a Kabul con loro e con loro dovevo stare, fecero un po di storie e poi dissero va bene, ma che entrino senza armi. Come se invece di una visita di connazionali fosse un assalto. Aggiunsero che Strada stava operando e dovevo aspettare.
A un certo punto mi dissero che Strada mi avrebbe ricevuto in sala operatoria. Stava terminando la sutura alla ferita di un bambino, lasciò lì per salutarmi, si tolse i guanti, si accese una sigaretta».
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