
Questa notte (essendo sempre insonne, e pensare che Jannik Sinner dorme dieci ore al giorno), riflettendo sull’ultimo video del canale Youtube di Enkk (che in realtà si chiama Enrico Mensa, ricercatore e divulgatore con una capacità rara di parlare di intelligenza artificiale senza inseguire la retorica salvifica o apocalittica, ne ho scritto qui), mi sono soffermato su una questione che sembra banale e in realtà definisce tutta la partita in corso: il mondo, nel campo dell’intelligenza artificiale, è diviso tra “buoni” e “cattivi”, e i contendenti sono solo due. Una distinzione primitiva ma efficace (lui dice: «lascio a voi decidere chi sono i buoni e chi i cattivi, anche se per me è chiaro»).
I buoni, in questo caso, sono gli Stati Uniti e in generale le democrazie occidentali, perché vincolati strutturalmente a meccanismi lenti, dibattiti pubblici, garanzie procedurali, bilanciamenti tra diritti, commissioni, moratorie, etica, comitati. I cattivi invece no, costruiscono modelli. Non chiedono il permesso né aspettano nessuna approvazione parlamentare, non si domandano nemmeno se sia il caso di accelerare, accelerano e basta. Enkk lo dice con chiarezza: bastano tre mesi di vantaggio. Tre mesi di accesso anticipato a un modello auto-addestrante, tre mesi in cui una macchina impara a perfezionarsi senza supervisione (lo stanno facendo già le AI occidentali, solo che non sappiamo a che punto sono quelle orientali), tre mesi in cui si riesca a applicare un modello darwiniano, evoluzionistico, per il miglioramento delle AI, diventano un vantaggio che non si riduce, ma si amplifica a dismisura siccome ogni giorno in più moltiplica la distanza, come un organismo che si evolve da solo mentre l’altro si chiede se convenga davvero evolversi.
È qualcosa che, storicamente, abbiamo già visto in un’altra forma. Quando Reagan comprese che l’Unione Sovietica non si sarebbe mai arresa per sfinimento ideologico, cambiò campo di battaglia: non cercò di vincere con la diplomazia o con la moralità, piuttosto con la pressione economica, il riarmo, lo spazio, mettendo i comunisti sovietici nella condizione di dover inseguire qualcosa che non poteva più permettersi. Così l’Unione Sovietica cadde, non perché qualcuno l’abbia abbattuta, ma perché non riusciva più a tenere il passo.
Oggi la Russia esiste ancora, con le sue vecchie armi e i suoi metodi consunti e le sue mire espansionistiche che minacciano l’Occidente e tengono l’Ucraina sotto le bombe, mentre sull’altro fronte, quello dell’AI, la Cina ha tutto ciò che all’URSS mancava: un’economia forte, una struttura autoritaria efficiente, una visione tecnologica centralizzata e soprattutto nessuna remora. DeepSeek, per esempio, come abbiamo visto, ha costruito un modello paragonabile a ChatGPT con una frazione di tempo, risorse e infrastruttura. Poco importa se meno elegante (e con diverse censure, ovviamente perché controllata dal governo cinese, bata farle qualche domandina su Taiwn), l’importante è che esiste, cresce, funziona, e che lo hanno fatto loro. Trump può essere accusato di qualsiasi cosa tranne che di lentezza e ha annunciato Stargate, un piano da 500 miliardi di dollari per dotare gli Stati Uniti di un’infrastruttura AI nazionale, con data center giganteschi, produzione energetica autonoma e modelli in grado di sostenere la supremazia algoritmica americana (tra l’altro uno dei motivi della rabbia di Musk, visto che dentro ci sono OpenAI, SoftBank, Oracle e MGX, non lui: ma la priorità di Elon non era andare su Marte?).
Comunque sia: e l’Europa? L’Europa si sa, guarda, regola, scrive linee guida, produce framework etici, e in teoria non è che sbagli. Solo che l’AI Act è il suo monumento all’irrilevanza: un apparato giuridico costruito per controllare qualcosa che non ha mai creato. L’UE si illude di gestire l’intelligenza artificiale come una sostanza chimica pericolosa mentre nel frattempo altri la trattano come materia strategica. L’UE discute se alzare le spese militari e ci arriva sempre un passo dopo, con il freno tirato, come se la deterrenza fosse un optional e la guerra un fenomeno ancora trattabile con note diplomatiche. I pacifisti (o “pacifinti”, come si chiamano oggi) non hanno capito che armarsi significa deterrenza, e deterrenza impedire la guerra (vedi ancora il caso dell’Ucraina).
L’ha detto la settimana scorsa a Guido Crosetto, Ministro della Difesa e amico, e mi ha risposto: «Sono mesi che lo ripeto, è difficile farlo capire».