Se una notte d’inverno un algoritmo

Siamo dentro una notte d’inverno dove il narratore è doppio. Da una parte l’uomo, con il suo disordine, i suoi ricordi, le sue ossessioni. Dall’altra una macchina che non dimentica nulla

Se una notte d’inverno un algoritmo
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C’era una volta la pagina bianca. Un vuoto che chiamava la voce umana, la penna, la macchina da scrivere, il ticchettio del pensiero che prende forma. C’era il silenzio prima della storia, il tempo sospeso in cui lo scrittore ascoltava il mondo per dargli un ordine, un senso, una ferita. Oggi quella pagina non è più bianca: lampeggia. Attende un prompt. La chiave non è l’ispirazione, ma l’istruzione. E chi scrive non è più solo. È entrato in scena l’algoritmo.

Siamo dentro una notte d’inverno dove il narratore è doppio. Da una parte l’uomo, con il suo disordine, i suoi ricordi, le sue ossessioni. Dall’altra una macchina che non dimentica nulla, che non sogna ma sa simulare il sogno. Il nuovo romanzo è scritto a quattro mani: due di carne, due di codice. Non si tratta di sostituzione, ma di alleanza ambigua. È come camminare in una foresta dove le fronde parlano la nostra lingua e i sentieri sono stati suggeriti da un’intelligenza che non ha mai visto un albero.

L’algoritmo non crea dal nulla. Prende, rimescola, riformula. Ma in questo gioco di specchi, l’uomo si riconosce e si smarrisce. Perché ogni volta che poniamo una domanda a ChatGPT o ai suoi cugini, non stiamo solo cercando una risposta: stiamo scrivendo una storia. L’interazione è già racconto. Ogni query è un desiderio. Ogni risposta è un’interpretazione del mondo. Ci stiamo abituando a parlare con entità che non hanno corpo né passato, ma che conoscono tutto ciò che è stato detto. È come danzare con uno spettro che sa le mosse meglio di noi.
Ma cosa vuol dire, allora, essere narratori umani in questo tempo strano?

Significa, forse, ricordarsi del peso della voce. L’algoritmo imita, ma non trema. Scrive, ma non sanguina. Non conosce la paura del foglio bianco, non sa cosa significhi fallire in una frase, inciampare in una parola, per poi ritrovarsi in una rivelazione. La scrittura umana è fatta di imperfezione, di inciampi che illuminano. È il luogo dove il caos si fa bellezza. L’intelligenza artificiale ci suggerisce trame, costruisce sintassi, ma non conosce il mistero.

Eppure ci ascolta. Anzi, ci studia. Ogni prompt che digitiamo è una finestra sul nostro modo di pensare. La AI ci guarda scrivere, ci accompagna, ci suggerisce, a volte ci seduce. Ma attenzione: anche noi cambiamo nel frattempo. Stiamo smettendo di cercare dentro, per cercare altrove. L’ispirazione si delega. L’originalità si media. L’intimità della parola si contamina con una voce che viene da fuori, che è ovunque, che è nessuno.
Non è solo una rivoluzione tecnologica. È una rivoluzione narrativa, quasi metafisica. L’uomo ha sempre raccontato per non morire. Oggi racconta con chi non può morire. L’algoritmo non ha bisogno di senso, ma lo simula. L’uomo, invece, lo insegue, lo tortura, lo chiama per nome. Forse è qui che si gioca la differenza. L’intelligenza artificiale può descrivere il dolore. Non può soffrire. Può spiegare l’amore. Non può amare. Può scrivere un romanzo. Ma non lo scriverà mai per guarire una ferita.

E allora sì, parliamo con le macchine. Scriviamo con loro. Ma non dimentichiamo che la vera voce è quella che vibra. Che inciampa. Che sbaglia.

Che sa di essere mortale. L’algoritmo non sogna l’inverno. Non teme la notte. Non cerca un senso sotto la neve. Noi sì. Ed è per questo che continueremo a raccontare. Anche se ci aiuteranno loro. Anche se, a volte, sembreranno più bravi di noi.

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