È il 3 aprile 1848. Decine di temibili «ironclad», una potentissima flotta di navi da guerra dai  fianchi corazzati di ferro, risalgono il corso del Tamigi. La loro ammiraglia è troppo grande  perché possa attraccare ai docks londinesi della Compagnia delle Indie Orientali. Ecco perché la  Regina Vittoria è costretta ad attendere a lungo inginocchiata sotto la pioggia l'arrivo del  plenipotenziario cinese Qiying. Il Regno Unito ormai si è dichiarato, come buona parte  dell'Europa, suddito del Celeste Impero, e proprio oggi la flotta imperiale prenderà il principe  Alberto come ostaggio eccellente e lo porterà a Pechino.
 L'ucronia di qualche scrittore picchiatello? No, l'inizio di uno dei libri distoria più  interessanti degli ultimi tempi, non ancora tradotto in Italia: «Why the West Rules for Now», di  Ian Morris(è appena arrivata l'edizione Paperback della Profiles Books, pagg. 750, sterline 12).  Morris - che insegna a Stanford e, dopo essersi formato a Cambridge, ha collezionato  collaborazioni con alcune delle istituzioni culturali più prestigiose del mondo - sa benissimo  che nell'aprile 1848 una folla di londinesi si recò ai docks per vedere una piccola giunca  chiamata Qiying. I mercanti di Hong Kong l'avevano spedita in patria come esempio di buffa  «cineseria». E dato il successo di pubblico, immortalato nelle stampe d'epoca, ci avevano visto  giusto. La creazione di questo strambo paradosso storico che ribalta le nostre certezze ha  dunque uno scopo preciso. L'Occidente ha superato in maniera incontestabile l'Oriente nel corso  dell'Ottocento, almeno per quanto riguarda l'ambito economico e militare: ma quest'esito era  inevitabile? E, soprattutto, questo sorpasso è destinato a durare per sempre? Davvero qualsiasi  sviluppo diverso, come le corazzate cinesi che risalgono il Tamigi, sarebbe paradossale?
 Gli studiosi di norma rispondono a questa domanda prendendo in esame una manciata di secoli. E  in questo senso uno degli studi migliori resta quello dell'italiano Carlo Maria Cipolla,  pubblicato in inglese nel 1965, Guns and Sails in the Early Phase of European Expansion  1400-1700 (in italiano edito dal Mulino), che dimostra che dal'400 in poi l'Europa si buttò  verso il mare è che questa fu una scelta fondamentale. Morris però fa qualcosa di più radicale,  un esame globale che torna indietro per migliaia di anni.
 Anzi milioni, visto che la vera prima divisione fra cultura dell'Ovest e dell'Est potrebbe  essere fatta risalire alla cosi ddetta «Movius line». Una linea immaginaria a ovest della quale  si usa un'ascia a mano di pietra tipica del paleolitico, a est invece strumenti di bambù. Da lì  in poi sarà tutto un «rimpiattino», uno scambio di ruoli di tecnologie e merci. In verità un  gioco complesso da raccontare, soprattutto per il fatto che gli indici di sviluppo umano sono  molto difficili da ricostruire (e non così univoci).
 La conclusione di Morris è affascinante. Negli ultimi 14mila anni l'Occidente (in cui include il  Medio Oriente) è stato quasi sempre in vantaggio. Anche se spesso di poco. Solo dal 550 al 1700  dopo Cristo, l'Oriente è passato in una momentanea condizione di vantaggio. Poi Europa e America  sono decollate di nuovo riportandosi in testa. Ma guardato su «una striscia del tempo» così  lunga questo sprint non sembra così spettacolare come appare da una prospettiva più ristretta. Negli ultimi due secoli lo sviluppo è diventato vertiginoso dappertutto, a New York come a  Pechino. Insomma per il momento l'Occidente è in vantaggio, ma potrebbe non esserlo più nel  2050.
 Tuttavia Morris dice, nell'ultima parte del libro, giocando a fare il futurologo, che questo  sorpasso conta poco. Il fatto rilevante è che con indici di sviluppo così incredibili la storia  sembra essere giunta vicina a una «singolarità». Vale a dire che con un insieme di culture che  si sviluppano a questo ritmo tra quarant'anni potremmo essere così ricchi, potenti e tecnologici  da riconoscere a stento i problemi del passato. Compresa la discussione sulla prevalenza  dell'Occidente sull'Oriente (e viceversa). Oppure l'accelerazione, diventando ingovernabile, ci  avrà spinto in conflitti e disastri tali da rendere di nuovo rilevante la questione di come  utilizzare un'ascia di pietra. Insomma, lo scontro di civiltà, secondo Morris, ha sin qui  avvantaggiato l'Occidente a partire soprattutto da questioni geografiche. Ora che la geografia  conta meno, delle due l'una: o siamo sull'orlo del decollo dell'intera specie umana, quella  globalizzazione buona che fa venire il mal di pancia ai progressisti (che chissà come ormai  amano il regresso), oppure siamo destinati a ricominciare il gioco da capo.
cervello dei catastrofisti.
E la decrescita serena? Morris non ne parla, forse semplicemente perché non ha senso.