Un'unica lista da proporre ovunque all'elettorato? Domani. Un solo gruppo parlamentare? Domani. Il Partito democratico? Domani. A Romano Prodi è riservato uno strano destino: ogni volta che cerca di assumere davvero la leadership dell'Unione, è prima azzittito, poi costretto ad ascoltare lezioni di comportamento politico da alleati ed amici ed alla fine vezzeggiato e blandito con la promessa di un futuro migliore. Viene cioè rimesso al suo posto, che non si sa quale sarebbe se non ci fosse stata l'incoronazione delle primarie, ma che al momento sembra solo quello di rappresentare, senza troppe pretese, la sua coalizione. Attenzione, rappresentare e non guidare.
Destino doppiamente strano, se si pensa che proprio l'entourage del Professore ha avuto il merito di sollevare, prima dell'estate, la questione morale che poi si è aperta nel centrosinistra, avendo come epicentro la Quercia, e che la strategia di trasformare l'Ulivo in un partito è l'unica strada percorribile per rinnovare un'area culturalmente ferma a dieci anni fa. Cioè due intuizioni importanti per un uomo più volte accusato di non avere una grande fantasia, ma foriere di guai.
Oggi - dopo l'ultimo tempestoso passaggio, durante il quale Piero Fassino non ha resistito alla cattiveria di ricordare che «Prodi non è Dio in terra» - si tende a risolvere l'enigma parlando soprattutto di errori tattici commessi dal candidato premier. Ma questa ennesima crisi non si può spiegare solo con la sua sottovalutazione della lotta per la sopravvivenza ingaggiata dai Ds, con la preoccupazione per la caduta del suo indice di popolarità nei sondaggi, con una forzatura resa necessaria dal conto alla rovescia per la formazione delle liste. C'è molto di più.
In primo luogo, c'è la conseguenza della rottura del lungo rapporto privilegiato che il Professore ha stretto con la Quercia. La critica esplicita all'affaire Consorte e il ritardo con cui ha espresso solidarietà ai Ds hanno aperto una frattura, a cui non ha corrisposto una fase di migliore intesa con l'area che fa capo a Rutelli. Anzi, come era prevedibile, la reazione di D'Alema e Fassino ha destabilizzato l'alleanza, ha posto agli uni un problema di resistenza e agli altri il problema di evitare che un eccesso di polemica sulla questione morale indebolisse l'intera Unione. È dilagata all'improvviso la paura di perdere, dopo un anno di sicura convinzione di essere ormai i padroni del campo. E non è stata considerata credibile la pretesa di Prodi di essere l'unico in grado di sventare il pericolo. Anzi, tutti si sono rimessi in movimento per rivendicare ciascuno la propria identità, dai Pacs al ritiro dall'Irak.
In secondo luogo, c'è l'unica Opa su cui la magistratura non può indagare: quella sul futuro Partito democratico. Ed è un'Opa ostile al Professore. Basta seguire il giornale che la promuove quotidianamente, cioè il Corriere della sera. Scrive un giorno che i Ds devono sparire, propone un altro giorno l'urgenza del nuovo partito, ma quando è Prodi a crederci e a prendere in mano il bandolo della matassa c'è subito il colpo di freni. Non si tratta solo di tifo, ma del trasparente scenario di un cambiamento di leadership e di politiche. Tra il candidato premier e il suo futuro si frappongono dunque sia l'ostacolo rappresentato dai partiti esistenti sia un pressing mediatico che tende a dettare l'agenda ed a condizionare la scelta dei candidati.
Così i due nodi non sciolti - l'affaire Unipol e il Partito democratico - hanno finito col riversarsi su Prodi che sta vivendo già ora, nel 2006, la famosa «sindrome del '98».
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