Chi ha frequentato le conferenze di Mourinho, anche prima che in Italia lo scoprissero come lerede di Helenio Herrera, sa che luomo è furbo e plateale, il tecnico capace e studioso, il personaggio ammiccante nella sua insopportabilità. Mourinho ha studiato lItalia e gli italiani ancor prima di aver messo occhio sullInter, e con quel «non sono un pirla» ha pescato subito allamo la banda degli allocchi di casa nostra. Ce ne sono una valanga, anche fra i giornalisti, subito pronti a vedere miracoli ad ogni respiro. Ma è un vizio del nostro calcio: ogni novità diventa il massimo che cè, fin quando non si arriva al minimo della sopportazione.
Quel che si è letto circa Mourinho, lo si è letto con formule diverse su tanti altri, soprattutto sui tecnici (tanti) dellInter morattiana. La vera differenza fra lingaggio di Mancini e quello di Mourinho sta nelle credibilità concessa alluno e allaltro. Mancini è arrivato tra tante diffidenze e una squadra da rimettere in sesto nei caratteri, nei comportamenti e nella qualità dei giocatori. Mourinho si è presentato come un divo, meglio, un profeta di successi, ha trovato una squadra solo da ritoccare, un ambiente più sano ed è dotato di una credibilità costruita nelle esperienze precedenti. Chi scrive aveva dubbi su quel Mancini e si è dovuto ricredere avendone intravisto, di anno in anno, qualità di ottimo allenatore. E poco contava lo status di simpatico o antipatico. Mourinho non ha vinto la Champions con il Chelsea, come Mancini non lha vinta con lInter. Ma stavolta lInter vuole la coppa: non può fallire. Nel calcio italiano gli unici vedovi inconsolabili sono quelli di Arrigo Sacchi: bravo, ma un po carente in fatto di scudetti. Eppoi prevedibile al di là delle sue innovazioni. Quindi Mancini, che è passato nella storia dellInter e ha lasciato il segno (lui ha vinto scudetti), è pronto ad esser dimenticato.
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