La notizia che Lorenzo Ornaghi stava occupando la poltrona di ministro della Cultura non è arrivata da Monti nè dai giornalisti. È stata raccontata in tempo reale su twitter dai suoi studenti della Cattolica. Centoquaranta caratteri per raccontare tutto. «Il professore ha ricevuto una telefonata». «Sta sbiancando». «Chiudo in anticipo le lezioni per ragioni a voi note». «Vado a Roma». L’avventura di Ornaghi è cominciata così, con una cronaca per frammenti, ed è ancora dai social network che arrivano i primi dubbi sul ministro. È un tam tam che risuona in profondità, con una serie di riflessioni che da twitter trasmigrano su Facebook, rimbalzando tra scrittori e intellettuali, tra docenti a cattedra precaria e blogger con ambizioni da opinion maker. Il dubbio è questo: perché l’unico ministro non tecnico è stato piazzato ai Beni Culturali?
Questa storia del non tecnico va un po’ spiegata. Ornaghi a guardarlo da lontano assomiglia a tutti i baroni del club Monti. È il rettore della Cattolica di Milano. Non lo si può considerare un giovane. È abbastanza uomo di mondo da frequentare con il dovuto distacco i confini della politica e ha perfino sfiorato una candidatura come sindaco di Milano. È un pezzo di élite, ma ci sta con un certo scanzonato disincanto. Perfetto, insomma, per il governo Monti. E questo va detto senza ironia. Cosa c’è, allora, che non va? Ornaghi è un tecnico, ma non un tecnico-tecnico, un tecnico specifico. Non appartiene a pieno titolo al mondo tradizionale del ministero della cultura. Quel luogo fuori dal tempo, dove eterni capibastone amano vestirsi di progressismo, con licenze bohémien in stile teatro Valle, ma con quattro quarti di spirito ultraconservatore nel sangue. È un po’ come il ministero della magia di Harry Potter, al primo sguardo funzionari e super direttori sembrano eccentrici fattucchieri, ma la loro visione del mondo è quanto di più old style esista nei palazzi del potere.
Il ministero dei Beni Culturali è fondamentale per chi vive d’arte e di altre narrazioni perché dispensa onori e consulenze e «promuove il valore e il merito nei posti chiave». Ad esempio la presidenza della Biennale di Venezia. O altre cose così, di grande prestigio, la cultura con i soldi insomma. È chiaro che tutti quelli che mangiano, vivono, soffrono, sognano di cultura questo ministero lo tengono sotto controllo. E dopo Bondi e Galan non si accontentano di un tecnico, vogliono un tecnico di casa al ministero. L’ideale sarebbe stato uno come Salvatore Settis, archeologo, per undici anni direttore della Normale di Pisa, giustamente preoccupato per le sorti di Pompei, pronto a sbattere la porta in faccia a Bondi e a dimettersi dalla presidenza del Consiglio dei Beni superiori dei Beni Culturali. Ecco, questo significa essere uno di casa. Il timore della «sinistra cult» è che Ornaghi non segni una netta discontinuità con la cultura del governo Berlusconi. Ornaghi non è Monti, ma puzza di Cei, di Ruini, di Bagnasco e forse di leghismo colto e senza canotta. Gli scrittori della «Generazione TQ» (Trenta-Quaranta), che hanno fatto un manifesto sull’idea che la cultura è politica, si chiedono: «Mancavano in Italia candidati autorevoli?». Spiegano: «Non è in discussione il prestigio scientifico dell’allievo di Gianfranco Miglio, studioso della dottrina fascista e delle élites, né il suo rilievo istituzionale. Per tre volte rettore dell’università Cattolica di Milano e direttore dell’Alta scuola di economia e relazioni internazionali dal 1996, Ornaghi è membro del cda del quotidiano Avvenire e direttore della rivista Vita e pensiero. È il politologo forse più vicino al cardinale Camillo Ruini (...).
Le perplessità scaturiscono piuttosto dall’esclusione del candidato elettivo». Il candidato elettivo, cioè naturale, era appunto Settis.
Ornaghi però ha una carta da giocare. Nel 2001 scrisse un saggio con Vittorio Emanuele Parsi dal titolo Lo sguardo corto.
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