Gli "Ottanta" e le illusioni che continuiamo a perdere

Diego Gabutti racconta i "Dieci anni che sconvolsero il mondo" e che sono stati la culla della realtà di oggi

Gli "Ottanta" e le illusioni che continuiamo a perdere

Ottanta (Neri Pozza, pagg. 348, euro 22) di Diego Gabutti ha come sottotitolo «Dieci anni che sconvolsero il mondo». Si cominciò con l'invasione russa dell'Afghanistan e si finì con la caduta del Muro di Berlino... Per certi versi, furono l'età del «brusco risveglio» rispetto a ciò che c'era stato prima, ovvero tre decenni di crescita, e un primo assaggio di ciò che sarebbe avvenuto dopo: la crisi del sistema politico dei partiti e il debito pubblico non più gestibile, la parodia di ciò che erano stati i movimenti giovanili e la cultura pop, l'entrata in scena del populismo, lo strapotere di Internet, il radicalismo islamico interpretato come «scontro di civiltà»...

Come suo solito, Gabutti è abilissimo nel mischiare l'alto e il basso, il cool e il cult, le fanzine e le retoriche comiziali e intellettuali, le mode, le contro-mode e i dylaniani tempi che andavano cambiando e ricostruisce un decennio, ma non solo, colorito ma anche funereo, orgiastico e però già minato dallo spettro dell'Aids, pieno di colpi di scena, ma anche di colpi di pistola, sia sacri sia profani: Giovanni Paolo II, John Lennon, Ronald Reagan...

Per convenzione, si è soliti definire gli anni Cinquanta della ricostruzione come gli anni «del boom», i Sessanta della contestazione come «magnifici» o «favolosi» o «magici», i Settanta della lotta armata come «di piombo», gli Ottanta del thatcherismo liberale e liberista come quelli del «riflusso», dell'«edonismo reaganiano», degli yuppies e dei paninari... Per certi versi significarono anche la fine delle illusioni, politiche, economiche e sociali che avevano caratterizzato gli anni precedenti, e l'inizio di una speranza altrettanto illusoria, che tutto sarebbe ripartito con la fine delle ideologie e, addirittura, la fine della storia... Si sa come è andata a finire.

Naturalmente, ogni definizione è di per sé limitata e a volte invece di racchiudere l'essenziale di ciò che vorrebbe codificare, finisce con il prendere a modello il superfluo. Inoltre, molto dipende dall'occhio di chi guarda, meglio ancora da quale emisfero si guarda, nord o sud, oriente o occidente...

Restando a noi europei, anzi, a noi italiani, sicuramente il primo decennio post bellico, 1945-1955, fu un rialzarsi dalle macerie e avviarsi verso quella ricostruzione che al termine degli anni Cinquanta culminò con il miracolo economico, l'Oscar della stabilità della lira e quel boom che come tutti i boom, cominciò a essere sbandierato proprio quando era entrato nella sua fase calante... In buona sostanza, quando Federico Fellini immortalò La dolce vita, la dolce vita era già finita.

Se poi si guarda con un po' più d'attenzione a ciò che intanto stava avvenendo intorno a noi, un intorno sia vicino sia lontano, ci si accorge che quei tre decenni di crescita occidentale più o meno ininterrotta, erano stati pieni di fatti e gesta, di cui ci si poteva legittimamente disinteressare, ma che non per questo non ci avrebbero prima o poi presentato il conto.

Un primo assaggio lo dà la guerra di Corea, dal '50 al '53, un secondo la guerra d'Indocina, poi guerra del Vietnam, che ci accompagnerà sino ad oltre il decennio dei Sessanta. La Conferenza interamericana di Caracas, del 1954, dove viene decisa la difesa dell'emisfero americano contro il comunismo, è il calcio d'inizio per tutti i golpe e controgolpe latino-americani a seguire; il patto di Varsavia del 1955, sancisce per il successivo trentennio la cortina di ferro per l'Est Europa; la decolonizzazione, che le antiche potenze europee si illudono di poter gestire, trasforma in campi minati l'Africa e il Medio oriente; c'è Cuba, il castrismo e la crisi missilistica russo-americana di Cuba; c'è il golpe dei colonnelli in Grecia nel 1967 e la concomitante Guerra dei sei giorni arabo-israeliana, c'è stata la costruzione del Muro di Berlino, la rivolta ungherese e polacca, c'è quella cecoslovacca... Per chi si ostina ad avere una visione eurocentrica del mondo, occidentale in senso lato, ci vuole molta miopia politica per non rendersi conto di quanto e come il mondo stia cambiando ed è una miopia che arriverà sino a quel fatidico 1989 in cui il crollo del comunismo cullerà il sonno di un Occidente incontrastato vincitore globale.

Tornando agli Ottanta, e restando all'Italia, Gabutti fa un ritratto magistrale e a grandi linee del berlusconismo mediatico come avanguardia del populismo politico che gli subentrerà, il «luogocomunismo» che stramazza davanti all'incedere delle ballerine del Drive In... Andando più in profondità, Gabutti fa comunque notare che quel decennio non fu tutto un rose e fiori: c'è la strage di Bologna, lo scandalo dei petroli, il terremoto in Irpinia con il successivo «sacco» del terremoto dell'Irpinia, c'è l'assassinio di Walter Tobagi, dell'ingegner Taliercio, del generale Dalla Chiesa, il sequestro Dozier...

Ciononostante, l'aria è cambiata e/o sta cambiando e nel tentativo di restare a favore di vento c'è una classe politica disposta a tutto, dall'esibirsi canoro in trasmissioni che si chiamano Cipria, al farsi portare in giro su una specie di sedia a rotelle formato sidecar nei talkshow di Gianfranco Funari. Quel decennio italiano si apre con la morte di Pietro Nenni e si chiude con l'esordio televisivo di Gigi Marzullo e questo vorrà pur dire qualcosa. A livello internazionale però c'è il crollo del Muro, c'è Tienanmen. Solo allora il Pci penserà di cambiare nome - e anche questo vorrà pur dire qualcosa.

Il fatto è che il brodo di coltura del berlusconismo mediatico sta in quei giornali satirici, i Cuore, i Tango, nati dentro quello che negli anni Ottanta più che un partito, il Pci, è un pachiderma pesantemente chiuso nella sua nomenklatura, ovvero l'idea che la politica ormai fosse solo il dileggio e il cazzeggio, lo sputtanamento dell'avversario, l'insopportabile superiorità per cui tutti gli altri erano merda... Un'ideologia disincantata e libertina, per la quale la modernità era il talkshow e il cinema spazzatura, la piazza in diretta e la vita in diretta, il porno d'autore e la fiction made in Usa... Se si va a vedere la televisione berlusconiana dell'epoca si scoprirà che autori, attori, registi, persino musicisti sono gli stessi che nemmeno dieci anni prima volevano dar fuoco al capitalismo e ai suoi totem, predicavano la purezza rivoluzionaria e proclamavano la distruzione del sistema borghese.

Non sorprende che all'inizio degli anni Novanta, quando Walter Veltroni, allora segretario dei Ds, il nuovo nome assunto dal defunto Pci della Bolognina, raccontò in un articolo di come, negli anni Settanta, si potesse «stare nel Pci senza essere comunisti», contrari all'ideologia comunista, il Manifesto titolasse: «Facevamo schifo».

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