Un Paese a bassa velocità

Quanto impiegheremo ad archiviare la parte più trascurabile di Pier Paolo Pasolini? Quanto impiegheremo a levarci il cappello per i suoi meriti artistici e tuttavia a valutarne oggettivamente l’impegno civile? Ma sì, quel certo impasto tra pauperismo cattolico e austerità berlingueriana, quel neo-poveraccismo che è riaffiorato dalle sortite ottocentesche del canzonettaro che al posto delle Torri gemelle, ha detto giovedì sera, costruirebbe una fattoria coi contadini: lo stesso di quella sinistra che era contro la televisione, contro le autostrade, contro la metropolitana, contro i grattacieli, contro i sottopassaggi, contro i computer, contro l’automazione del lavoro, contro il part-time, contro tutto ciò che si è rivelato causa e conseguenza della modernizzazione del Paese.

Eppure venerdì scorso rieccoti un giornalista del Manifesto, in televisione, con la sua brava citazione della «lezione di Pasolini», riecco gli aedi del ritardo strutturale che li vide opporsi a un pluralismo televisivo che dapprima definirono «illegale, incostituzionale e tecnicamente impossibile», riecco i plaudenti dei pretori che spensero le Tv Fininvest, quelli che le opere no, cioè sì, però diverse, cioè in pratica no, e non vogliono varianti di valico, non vogliono ponti, non vogliono treni che vadano troppo veloci, che ci portino finalmente lontano dal loro retroterra culturale.

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