In nome del mandato degli elettori, la missione «Antica Babilonia» si esaurirà entro l'autunno, come ha detto a Bagdad Massimo D'Alema, e viene fin d'ora esclusa - parola di Arturo Parisi - una qualsiasi altra presenza militare, anche a sostegno e protezione di un programma civile di cooperazione con l'Irak. Cala dunque il sipario sul più importante intervento militare italiano seguito alla seconda guerra mondiale, un intervento deciso ed attuato nel nome della costruzione della democrazia nel mondo e della lotta contro il terrorismo.
È un errore. Un errore è l'accelerazione politica decisa dal governo dell'Unione, conseguente al giudizio più volte espresso da Romano Prodi sulla natura dell'operazione, espresso nelle parole «forze di occupazione». Ma un errore è stata anche la prima decisione, quella presa nei mesi scorsi dall'allora maggioranza della Casa delle libertà, di iniziare il disimpegno militare e di non prospettare con la necessaria chiarezza come sarebbe continuato il sostegno alla democrazia irachena.
Pesano certamente sull'opinione pubblica le dolorose perdite subite, ultima quella di Alessandro Pibiri. Così come pesa l'incertezza di un conflitto che sarà ancora lungo e sanguinoso, in un'area in cui si sente soprattutto la cupa voce dei fondamentalismi islamisti, delle loro armi, delle organizzazioni terroristiche e anche degli Stati, a cominciare dall'Iran di Ahmadinejad. Il corso delle democrazie, fin dalla prima metà del Novecento, è segnato dal dilemma fra l'orrore e lo sdegno nei confronti delle dittature e della violazione dei diritti umani, da una parte, e dall'altra la paura di essere trascinati nei conflitti. Basti pensare al precedente storico più importante, quando Roosevelt nel 1940, neanche davanti all'occupazione della Francia da parte di Hitler e all'isolamento dell'alleato britannico, non aveva la forza politica per convincere il Congresso all'intervento in Europa.
Oggi, l'Italia scioglie questo eterno dilemma con un passo indietro: dall'assunzione della responsabilità si torna al metodo delle parole. Le parole che non costano nulla. Non costa nulla riconoscere a posteriori che è stato giusto rovesciare Saddam Hussein. Non costa nulla ammirare il coraggio degli iracheni che si sono recati alle urne nonostante la minaccia di morte. Non costerà nulla - una volta ritirato il contingente italiano - inorridirsi per le stragi jihadiste. Dall'internazionalismo della difficile responsabilità, segnata dal sacrificio e dal dolore, si passa all'internazionalismo dei buoni sentimenti.
Non credo che Romano Prodi, così come D'Alema e Parisi, non siano capaci di leggere quello che sta accadendo in Irak, né ignorino che ormai da mesi il bersaglio dei terrorismi sono in primo luogo i civili, gente che va al lavoro, fedeli che pregano, donne al mercato, studenti che hanno la colpa di leggere ed imparare, giornalisti che commettono il crimine di informare, intellettuali che pensano. Esattamente come in Algeria, nel decennio scorso. Sono certamente consapevoli della natura dello scontro in atto, sanno che la fine di «Antica Babilonia» non contribuisce alla pace, anzi rende più debole la resistenza al fanatismo islamista.
Per questo si trincerano dietro l'argomento del mandato elettorale ricevuto, innalzano il vessillo del «rapporto paritario» con gli Stati Uniti che non si sa cosa sia, si rifugiano dietro la mitologia di un'Europa che purtroppo è in panne, usano come un paravento l'errore compiuto dalla Casa delle libertà e consumano, nel nome della politica interna, l'atto più contraddittorio e pericoloso che una democrazia può compiere: quello di disimpegnarsi dalla costruzione della democrazia globale.
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