Il Pd è tornato a fare ciò che gli riesce meglio: dividersi. È un riflesso antico, quasi una postura, discutere di sé mentre il Paese discute d'altro. L'ultimo caso, in ordine cronologico, ha riguardato la proposta presentata al Senato da Graziano Delrio, "Disposizioni per la prevenzione e il contrasto dell'antisemitismo". Un'iniziativa "a titolo personale, non certo del gruppo o del partito", l'ha subito definita il capogruppo Francesco Boccia. In termini parlamentari, una semplice precisazione. In termini politici, un segnale: nel Pd l'unità non è un dato, ma un negoziato permanente. Tra Camera e Senato le proposte di legge sull'antisemitismo sono sei, tutte depositate da partiti diversi. A litigare però è uno soltanto.
Poi c'è il caso Guerini, altro autorevole esponente del Pd, nonché presidente del Copasir, che incalza il governo sull'Ucraina sollecitando l'urgente invio di aiuti, mentre il suo partito è schierato sul fronte opposto. Per non parlare di Pina Picierno.
La vera partita sullo sfondo però è un'altra, quella sul referendum sulla giustizia. Quasi impossibile costituire un comitato referendario per non intestarsi una probabile sconfitta, ma, allo stesso tempo, molto difficile portare avanti una linea di opposizione netta alla riforma Nordio, quando tra i primi sostenitori del provvedimento ci sono proprio autorevoli esponenti del Pd. Come è noto, personalità come Ceccanti, Bettini, Morando e Salvi sono pronti a fare campagna per il Sì. Perciò per il principale partito di opposizione è molto più semplice delegare all'Anm il compito di contrastare la legge sulla separazione delle carriere. È un meccanismo già sperimentato: tenere insieme tutto, evitare lo strappo a costo del caos. La pluralità, senza un punto di sintesi riconoscibile, equivale a snaturarsi.
Allora per i Dem il rischio è quello di perdere la partita contro il centrodestra, di perdere peso all'interno di una coalizione di cui non hanno mai avuto il controllo, e, per la segretaria, di perdere la partita interna. La mossa di Meloni ad Atreju pare abbia sortito l'effetto sperato dalla premier. Sui giornali leggo che il dialogo tra Conte e Schlein si è nuovamente raffreddato, addirittura Schlein dice di non riuscire a parlare con il presidente dei 5 Stelle, in teoria il suo principale alleato, perché questo non gli risponde al telefono. Vi pare normale?
Il punto, allora, non è soltanto la prospettiva del referendum o la singola iniziativa parlamentare. È la percezione di un'opposizione che non riesce a darsi un orizzonte politico. E da liberale, non mi rallegro certo di quanto sta avvenendo. Non mi preoccupo tanto delle sorti del centrosinistra, quanto di quelle dell'opposizione: una democrazia ha bisogno di pesi e contrappesi, di una maggioranza stabile e di un'opposizione forte. Qui invece siamo al "tana libera tutti".
Se il cosiddetto campo largo, già privo di identità, strategia e leadership, dovesse continuare a presentarsi diviso, quello della legge elettorale rischia di diventare solo un dettaglio tecnico. Meloni non avrebbe bisogno di una nuova legge elettorale per "blindarsi", se la situazione non cambiasse vincerebbe anche al lancio dei dati.* Presidente della Fondazione Einaudi