Caro direttore,
sono un papà di 63 anni. Mio figlio ha 35 anni e da 12 anni vive con il suo compagno. All'inizio è stato difficile accettare la sua omosessualità ma poi ha prevalso l'amore e l'armonia familiare su tutto il resto. In questo mese per me e mia moglie la vita è molto difficile.
Io e mia moglie siamo sempre stati persone di fede, mia moglie si dedica alla Icone, canta nel coro e si dedica alle iniziative della parrocchia. Ma la passione e la fede in questo periodo ci viene meno. Come mai i nostri sacerdoti che dovrebbero ricordare l'amore, il rispetto per la dignità umana e la solidarietà tra gli esseri umani alimentano un disprezzo sociale che disgrega le famiglie?
Lei hai mai provato come ci si sente quando gli altri ragazzi a scuola insultano con parole offensive (tipo frocio, finocchio) il proprio figlio a cui lei ha sempre voluto bene? Lei sa cosa significa stare in silenzio quando le chiedono «ma tuo figlio non è ancora sposato?» pur sapendo che vive felicemente con una persona cara ma a chilometri di distanza? Pensate a come si può sentire un padre e una madre che sono sempre stati cattolici e devoti alla Chiesa, che in questi mesi di dibattito acceso sul tema dei Pacs devono continuamente sentire parole poco comprensive dalle persone con cui hanno sempre pregato.
Come mai i nostri più alti rappresentanti della Chiesa pronunciano parole che ci ricordano che nostro figlio ha una qualche disabilità, che è una minaccia per la civiltà e il futuro, che pur essendo un uomo di successo e di fede che paga le tasse come gli altri è comunque meno degli altri perché nel suo letto la sera c'è una persona dello stesso sesso? Perché nella Chiesa protestante, norvegese o luterana queste parole non vengono dette con tale insistenza?
Io vorrei che mio figlio e il suo compagno si avvicinassero di più alla fede, che frequentassero di più la parrocchia ma hanno qualche difficoltà e questo a me spiace perché in questo modo la nostra famiglia non è unita.
Con amarezza
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