Perché la sinistra demonizza «l’altra piazza»

Arturo Gismondi

I commenti dei politici e gli osservatori, con qualche eccezione, non hanno mancato di riconoscere che la manifestazione di piazza San Giovanni di qualche giorno fa è stata senza precedenti per vastità, e per civiltà. Hanno aggiunto, in diversi casi, che il governo e la sua maggioranza debbono tenerne conto essendo quella la voce di tanta parte del Paese. Il Riformista, giornale della sinistra moderata, ha esortato Prodi a non limitarsi «a fare spallucce» come ha fatto dinanzi a una manifestazione di volontà politica espressa oltre a tutto in modo tanto civile.
C’è stata qualche voce diversa. Niente di male se quella voce non si fosse espressa in termini sprezzanti, non già nei confronti di una linea politica, ma di quella piazza, di quei cortei, di quella umanità nei quali l’autore dell’articolo, Furio Colombo ex direttore dell’Unità, ha sintetizzato tutto ciò che di negativo, di orrido e perfino di criminale esiste in questo Paese. I cortei sono immaginati come guidati da alcune categorie da additare al pubblico ludibrio, gli inquisiti, tutti, senza distinzione alcuna, profittatori e lestofanti di ogni risma, evasori soprattutto, che dietro la polemica contro la «Finanziaria delle tasse» nascondono il proposito e anzi la volontà, di continuare a evadere l’obbligo di pagare quanto dovuto. Il corteo sarebbe stato chiuso, particolare toccante, dai «numerosi proprietari di Suv» in quanto inquinatori e soprattutto in quanto possessori di auto che rivelano un cattivo gusto da additare al pubblico ludibrio. E sorvoliamo sul resto.
Insomma, quei settecentomila, o un milione, o più di persone che si sono raccolte a Roma qualche giorno fa costituivano l’Italia peggiore, quella che infesta la nostra società. Colpevoli oltre a tutto, par di capire, di intenti sacrileghi pretendendo di calpestare la terra di quella piazza che fin qui ha rappresentato lo scenario preferito della sinistra, dalle adunate di Togliatti ai tempi del Fronte Popolare alle manifestazioni inscenate fino a poco fa dalla Cgil contro il governo di Berlusconi.
Colpisce, nell’articolo di Colombo, una ostilità e un disprezzo espressi senza alcuna remora. Tutto ciò, sul giornale del maggior partito di governo, quello che raccoglie nelle sue mani tanto potere in questo Paese. Di ciò si potrebbe ridere se non ci fosse qualcosa d’altro, e di più. Se, cioè, la esistenza di questa Italia abbietta non rinviasse alla esistenza, teorizzata anch’essa a suo tempo, di un’altra Italia, quella di chi è convinto di rappresentare, di questo Paese, la parte migliore, e ciò nonostante le smentite della Storia. Si può sorridere di simili pretese, ma sulla tesi consolatoria dei comunisti che avranno pure sbagliato tutto ma restano i migliori, Scalfari ha costruito, da trenta anni, un florido mercato editoriale. C’è stata insomma, e ci sarebbe tuttora, una Italia dei migliori, «degli onesti e dei capaci», l’espressione è del leader del Pci, dei predestinati a guidarci tutti, che lo vogliamo o no. È una Italia celebrata in termini paradossali da Pier Paolo Pasolini in un fondo ospitato sul Corriere della Sera diretto da Piero Ottone nell’anno 1974, nell’Italia del «compromesso storico» berlinguerano. In quell'articolo Pasolini affermava, testualmente, che «il Pci è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese colto in un Paese ignorante», e via elencando.
Le parole non saranno quelle usate da Pasolini trent’anni fa, e da Colombo ai nostri giorni ma l’Italia coltivata da certi intellettuali resta quella. C’è il mito di un Popolo Eletto che senza aver incontrato alcun Mosè capace di guidarlo attraverso il Mar Rosso ha acquistato il diritto, non so se divino, di guidare questo Paese. Si potrebbe ridere di simili idiozie, ma su queste si è fondata la formazione di tanta parte del nostro establishment culturale, politico, burocratico, accademico che si è fatto nei decenni potere. L’unica arma a disposizione del cittadino che neghi questa sorta di primigenitura destinata a perpetuarsi come nelle regioni rosse all’infinito e senza alternative, è quella della democrazia, ed è di questa arma che i 700mila, il milione o due, restano sempre tanti, ha dimostrato di volersi servire. Davvero difficile perdonare loro tanto azzardo.
a.

gismondi@tin.it

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