Controcultura

Pesce difende le donne. Le femministe invece no

Chi attacca "Maestà sofferente" non l'ha capita. Ripensi alle muse di De Chirico e ad Artemisia

Pesce difende le donne. Le femministe invece no

Le femministe di Ferrara, prevedibilmente, contestano la Maestà sofferente di Gaetano Pesce, uno tra i grandi italiani a New York, rimproverando radicalmente l'artista con argomenti risibili che entrano nel merito dell'invenzione e dell'estetica della sua opera. Scambiando le frecce con spilli, perdono di vista l'archetipo, che è stato invece compreso e adottato dal mondo gay: l'immagine di San Sebastiano, trafitto dalle frecce ma integro e resistente nel suo corpo apollineo. La ragione della confusione, o della vera e propria ottusità, è nel fatto che «in realtà, considerato che il corpo risulta privo di testa e arti, l'oggetto che maggiormente evoca è senza dubbio una poltrona». Non lo evoca, lo è, partendo da un prototipo elaborato da Pesce cinquant'anni prima, come egli stesso dichiara, in un tempo lungo di conversione ai valori femminili e ai diritti, conquistati in mezzo secolo, appunto, dalle donne. Nessuno obbligava un maschio a fare un monumento alla Maestà ferita, alla Maestà tradita o alla Maestà sofferente; e dovrebbe essere considerata una conquista che un uomo, un artista, nei limiti della sua visione, dedichi un monumento, come non ve ne sono, alla donna.

Ma non basta. Il contenutismo di queste paradossali critiche entra nel merito della creatività di Pesce, avanzando osservazioni di tipo moralistico: «il nostro problema è un altro: che la violenza di genere venga rappresentata attraverso la riduzione della donna a un corpo inerme e non pensante. E la enormità dell'opera non fa che amplificare questo effetto: corpo inerme e non pensante». Pretesti. Il khomeinismo di queste manifestazioni presuppone una radicale iconoclastia. È proprio dei regimi censurare le opere d'arte, o criticarle in nome di valori morali. Lo dimostra esemplarmente il nazismo, con l'esposizione di Monaco sull'«Arte degenerata», voluta da Hitler nel 1937. Con argomenti di incredibile ottusità, le donne firmatarie del manifesto propongono la loro lettura letterale: «Peccato che le donne non siano riducibili a punta-spilli senza vita! Noi rifiutiamo quella rappresentazione statica che non ammette l'azione della donna, il suo pensiero, la sua elaborazione».

E loro chi sono, per dirlo? Cos'hanno fatto per la donna? E quali titoli hanno per giudicare? «Noi non accettiamo quella visione, perché è vecchia, superata, stereotipata, non tiene conto delle donne, non tiene conto del cambiamento culturale che ha investito la nostra società negli ultimi decenni». Ma un opera d'arte, più o meno riuscita, non è un saggio di sociologia, e non deve andare avanti o indietro. Deve far pensare. Anche con le metafore, anche con il sogno, anche con una interpretazione visionaria. No: «noi non accettiamo un opera che fa tornare indietro la società tutta». Ecco, vorrei capire come Pesce, che non è un salmone, possa fare tornare indietro la società. Nessuno più di lui ne ha interpretato la varietà e i sussulti, i movimenti e le oscillazioni dei comportamenti e del gusto, anche negli ambienti familiari, dove stanno letti e poltrone.

E, d'altra parte, se le firmatarie avessero un po' di pudore, ricorderebbero che alcuni capolavori di De Chirico, archetipi per Pesce, rappresentano mobili nella valle, con grandi e poeticissime metafore. Per alcune interpretazioni essi indicano il nomadismo e il ricordo di trasferimenti di case e di luoghi, nell'infanzia. Nell'arte entrano remote suggestioni psicologiche. Nella tesi di due donne, Rebecca Gander e Paola Montini, per il corso di Letteratura artistica del semiologo Paolo Fabbri, si legge: «La poltrona, anche come ricordo legato alla madre, ci sembra che ricopra in De Chirico una posizione di particolare rilevanza dove, di volta in volta, assume funzioni importanti: vitale per un paralitico; come trono dorato per la madre che sorveglia e protegge lui e il fratello; come luogo dell'abbandono ai pensieri dolorosi del padre del figliol prodigo; oppure come emblema del potere e dell'autorità legata al prefetto».

Lo stesso De Chirico, nelle Memorie della mia vita, trasfigura sedie, letti e poltrone in una dimensione poetica, di ritorno all'infanzia, preclusa alle firmatarie: «Ora io ho sempre desiderato una vita tranquilla e regolata, in mezzo alle mie cose. Avviene in tal modo che trovandomi con Bertoletti, al caffè o in altro luogo, mentre lui parla di pittura, di esposizioni, di Biennali, di Quadriennali io, talvolta, dimentichi di ascoltarlo e guardandolo pensi che quell'uomo che mi parla ha cambiato casa solo due volte in più d'un quarto di secolo e che quei divani e quelle poltrone ove oggi egli si siede nella sua abitazione di Via Condotti sono probabilmente gli stessi sui quali, venticinque anni prima, si sedeva nella sua abitazione presso la via Nomentana e così, guardandolo, mi perdo in un dolce sognare e fantasticare, m'immagino di essere io quell'uomo, di essere io Bertoletti».

E che dire del più ferrarese dei dipinti di De Chirico, Le muse inquietanti, dove davanti al Castello Estense si palesano non uomini, ma manichini? Risulta che qualche uomo abbia contestato De Chirico che ha ridotto l'uomo a manichino, togliendogli testa e arti, e riducendolo a un fantoccio inerme e non pensante? Nessuno ha ritenuto di mettere in discussione le scelte di De Chirico. Le femministe e razziste lo fanno con Pesce, stabilendo loro cosa vuol dire lui. E cosa dovrebbe dire? Curiose queste donne! Sarebbe come se i maschi protestassero perché Artemisia Gentileschi ha dipinto Giuditta e Oloferne con terribile crudeltà, violenza e sadismo. Nelle diverse versioni del dipinto due donne infieriscono sul povero Oloferne, sgozzandolo, facendolo sanguinare e schizzare ovunque, con un compiacimento sadico, come per contrappasso della violenza subita dalla pittrice nella sua giovinezza.

Questa questione del trattamento giudiziario rispetto ai valori estetici mi fa tornare alla mente l'importante mostra «Artiste del Novecento tra visione e identità ebraica», proposta qualche anno fa alla Galleria d'arte moderna di Roma, utile repertorio della creatività femminile che nessuno si permetterebbe di giudicare, nonostante l'evidente insufficienza formale di molte delle dimenticate artiste, se si escludono Adriana Pincherle e soprattutto Antonietta Raphaël. Appare ragionevole ed evidente prenderle per quello che sono, non giudicarle, e, tanto meno, ritenerle inadeguate per invenzioni e stile.

L'arte non si giudica, se non rispetto alla sua incidenza storica. L'arte si sente, perché sensibili, più delle persone comuni, sono gli artisti.

E pochi sono intelligenti, e sensibili, come Gaetano Pesce.

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