Milano - I pruriti rialzisti della Bce, l’America dei senza-lavoro e l’ennesimo record dei prezzi del petrolio, schizzati a 139 dollari: tre ingredienti esplosivi finiti ieri nella centrifuga trita-titoli e costati alle Borse europee circa 150 miliardi di euro in termini di capitalizzazione. Ribassi decisi, tra l’1,5 e il 2,5% a livello di indici generali (a Milano il Mibtel ha perso il 2,1%), ma di ben altra consistenza tra i bancari, i petroliferi e gli automobilistici, i settori più penalizzati. Nessun conforto è arrivato da Wall Street, dove a fine seduta il Dow Jones è sceso del 3,27% e il Nasdaq del 2,96%, e si è amplificato nel corso della giornata lo spettro anni ’70 della stagflazione (alta inflazione accompagnata a crescita stagnante).
A far scattare inizialmente le vendite sono state le parole con cui giovedì scorso il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, ha ventilato una stretta sui tassi già nella prossima riunione di luglio per contrastare le spinte dell’inflazione. Una presa di posizione tanto esplicita quanto imprevista, che ha determinato uno scatto in avanti dell’Euribor (il tasso di riferimento sui mutui), tornato ai massimi da sette anni dopo aver sfiorato il 5%, ma soprattutto contribuito a risospingere l’euro ben oltre quota 1,57 dollari (1,5743 il top di seduta).
Come spesso è accaduto nell’ultimo periodo, l’indebolimento del dollaro non è stato privo di conseguenze: il petrolio è stato infatti protagonista di un vero e proprio rally a New York, guadagnando in poche ore - fatto mai accaduto in passato - più di 10 dollari il barile per attestarsi a 139 dollari, nuovo primato assoluto. Sotto un certo profilo, la cosa è perfino paradossale: i prezzi del greggio, che sono la principale fonte d’inflazione insieme a quelli dei generi alimentari, schizzano in alto perché legati a filo doppio al dollaro, il cui indebolimento è a sua volta provocato da chi (Trichet) vuole debellare, con la medicina di tassi più alti, la febbre inflazionistica scatenata dall’oro nero.
Quanto sta accadendo dimostra, una volta di più, la complessità di una situazione in cui strumenti di contrasto dell’inflazione validi in passato rischiano invece di trasformarsi in un boomerang pericoloso. La stessa Federal reserve, che ha scelto di sostenere la crescita tagliando a ripetizione il costo del denaro (fino all’attuale 2%), non è comunque messa meglio della Bce. L’inflazione è un problema anche per l’America, e Ben Bernanke, con il recente annuncio sulla fine del ciclo di riduzioni dei Fed Fund, lo ha ammesso. Ma la politica monetaria decisamente lasca non ha scongiurato del tutto il rischio di una recessione. I dati sul mercato del lavoro diffusi ieri parlano di un Paese ancora in debito d’ossigeno: il tasso di disoccupazione è schizzato in maggio al 5,5% dal 5% in aprile), l’aumento mensile più elevato dal febbraio 1986, mentre il saldo tra assunzioni e licenziamenti è risultato negativo per 49mila unità. In soli cinque mesi, la Corporate America ha sacrificato 324mila posti di lavoro. «È un segnale coerente del rallentamento della crescita economica», ha dichiarato il presidente George W. Bush, che ancora una volta ha evitato di usare la parola «recessione».
I rapporti sullo stato di salute dell’occupazione Usa potrebbero peggiorare, soprattutto se il greggio continuerà a correre.
Un analista di Morgan Stanley ha previsto che il barile avrà toccato i 150 dollari entro il 4 luglio. Di questo passo, ci arriverà molto prima. Per gli Usa (e non solo), non ci sarà nessuna festa per l’Indipendenza. Da petrolio.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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