L’uomo politico più impopolare del mondo cerca aiuto dal presidente degli Stati Uniti a sua volta più in difficoltà degli ultimi decenni. È la fotografia imbarazzante e impietosa dell’imminente incontro tra Manmohan Singh, primo ministro dell’India, e Barack Obama.
Singh, politico di tardiva vocazione ed economista di formazione, era stato il primo capo di governo straniero a essere ricevuto da Obama nell’ambito di una visita di Stato: il presidente americano intendeva così sottolineare l’importanza che la sua amministrazione attribuiva ai rapporti con il gigante indiano, ex colosso dai piedi d’argilla in piena crescita sia economica sia geostrategica. La Casa Bianca puntava insomma a un partenariato strategico, obiettivo che certamente verrà rilanciato a New Delhi tra il 7 e l’11 novembre nel corso della prossima visita di Obama. Come un anno fa, a incontrare il presidente degli Stati Uniti ci sarà Singh, che non sembra essere nelle condizioni ideali per affrontare da protagonista questo appuntamento cruciale.
E questo non perché il premier indiano abbia nel frattempo tagliato il traguardo dei 78 anni: le sue capacità sono intatte, le sue qualità brillanti. Il problema è un altro. È che la popolarità di Manmohan Singh, a un anno e mezzo dalla sua riconferma alle elezioni, è precipitata a un minimo storico difficilmente peggiorabile: l’uno per cento. Non che un anno fa riuscisse a sfondare nei cuori dei suoi connazionali, che gli attribuivano un tasso di credibilità del 17 per cento, comunque bassissimo.
Una situazione da fine impero (Singh è premier dal 2004) apparentemente difficile da spiegare, se si considera che il mandato durerà fino al 2014. Eppure, sembra evidente che una nuova generazione di politici stia già scalpitando per prendere il posto del quasi ottantenne Singh: il preferito dell’opinione pubblica è l’ultimo erede della sempiterna dinastia Gandhi, il trentottenne Rahul, figlio di Sonia «l’italiana», la carismatica vedova dell’ex primo ministro assassinato Rajiv Gandhi.
Rahul, che appartiene allo stesso partito di Singh, piace al pubblico per il sommarsi della sua accattivante immagine giovanile alla tenace mitologia della sua famiglia. La sua immensa popolarità - scrive India Today - viene però ulteriormente amplificata dalla caduta a precipizio di Singh, per spiegare la quale occorre superare un paradosso: quello in virtù del quale, proprio mentre un sondaggio lo “incoronava” politico più impopolare del suo Paese, una giuria internazionale riunita a New York gli attribuiva il titolo di «statista dell’anno».
Quello di Singh sembra essere il classico destino ingrato dei riformisti incorruttibili (una categoria piuttosto rara in politica anche nel suo Paese). Da quando, ormai sessantenne, entrò in politica vent’anni fa, questo professore di economia laureato a Oxford ha associato il suo nome alla liberalizzazione dell’economia indiana e all’apertura del mercato interno alla concorrenza internazionale. Mosse che si sono rivelate preziose per l’India di questi ultimi due decenni, sempre più protagonista sulla scena economica mondiale. Ma quando si è trattato di applicarsi alla politica concreta, in altre parole di sporcarsi le mani prendendo delle decisioni in ambiti non necessariamente economici, sono emersi i limiti di Singh. Simboleggiati dal clamoroso fallimento dei recenti Giochi del Commonwealth a New Delhi, che hanno dato dell’ambiziosa India un’immagine di deludente inadeguatezza.
Ecco dunque che l’arrivo di Obama viene vissuto dall’entourage di Singh come la ciambella a cui aggrapparsi per non affogare.
Il presidente americano è stato tra l’altro firmatario di un accordo di cooperazione nucleare molto importante per le imprese indiane e l’India è sempre più l’oggetto di investimenti Usa, tesi a controbilanciare l’esplosione del gigante cinese. Ma il rischio che il vertice Singh-Obama venga dipinto dai media internazionali come un incontro tra uomini politici perdenti è assai concreto.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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