Proprio qui doveva nascere, a due passi da Genova. E non poteva che essere qui, la Fondazione Renzo Piano, «luogo di riferimento» di una città che lui, larchitetto più famoso del mondo, dice di «amare più di ogni altra: una città che ho nella pelle, con un porto che - ricorda ancora a chi gli sta intorno - è la mia grande passione fin da quando mio padre mi portava a vedere i moli e le banchine, i ponti e le calate, luoghi straordinari che cambiano aspetto ogni due ore. Davanti al mare, quel Mediterraneo che è sorgente inesauribile dispirazione come diceva il mio amico De André»... Parla, racconta, sorride, Renzo Piano, «grande comunicatore» e affabulatore, barba rada e ben curata, abito beige, camicia azzurra aperta sul collo, e qualche ruga in più sul viso per via del jet lag conseguente allultima trasvolata atlantica ed anche per via di qualcuno che gli «dice male» di Genova. Lui non lo sopporta proprio. Ha appena accolto i membri delle commissioni del consiglio comunale guidati dal sindaco Marta Vincenzi e dal presidente dellassemblea di Tursi Giorgio Guerello, arrivati in massa a Vesima per visitare la «bottega» dellarchitetto, una delle tante. Uninvasione riverente e curiosa - alquanto diversa da quella della notte precedente, quando i comitati anti-gronda hanno tappezzato i muri esterni con manifesti e striscioni inequivocabili -. Uninvasione, comunque, che si trasforma in raffica di domande, alcune ossequiose, altre birichine. Come quando gli chiedono perché la Fondazione ha stretto un accordo con lUniversità di Harvard e non con altri atenei, anche italiani. O quale sia esattamente il ruolo dellamministrazione comunale, anche dal punto di vista finanziario. E se ci sono studenti del nostro Paese, in particolare genovesi, che hanno accesso ai corsi.
A tutti replica Piano, disponibile a fornire chiarimenti, ma senza frasi trascinare in giudizi e sentenze sullo «stato delle cose» a Genova. Lui invita, sì, a ragionare «local», ma anche «global». E dunque precisa: sono sempre più saldi i rapporti tra la Fondazione e Harvard, già legate dal 2001 da un accordo di collaborazione. Allorizzonte, cè la prospettiva che la Fondazione diventi sede permanente in Italia del più antico ateneo degli Stati Uniti. «Alla fine dellanno ci sarà unaccelerazione del programma di collaborazione - sottolinea larchitetto genovese -, con Harvard e altre 12 università del mondo. Harvard ha già una sede in Italia, a Firenze, dedicata ad attività umanistiche. Quella di Genova sarebbe dedicata invece alla poetica del costruire».
In questo ambito, si può ben inserire il Comune. E allora Piano ribadisce la proposta che un esponente dellamministrazione di Tursi entri a far parte della Fondazione. Intanto, proseguono le iniziative che sono alla base delle strategie dellorganismo: Piano auspica che la Fondazione si apra alla visita di studenti delle scuole elementari genovesi affinché «questo luogo serva ad inseminare in città la voglia di architettura». Non sarà mai un museo - avverte - in quanto non lo consente la disposizione dellarchivio e delle tavole progettuali distribuite un po dappertutto nelle sale, appese ai muri, in un ordine «giudiziosamente disordinato». Ma un luogo di lavoro aperto a un certo pubblico di fruitori, questo sì: «E quali migliori fruitori - conferma Piano - dei giovanissimi che possono acquisire in maniera autentica lessenza del lavoro di bottega?». Per gli studenti ospiti, in tutto una dozzina, di cui uno è sempre genovese, avvicendati a semestri - «tutti a spese nostre», scandisce lui - il discorso è un altro: si tratta di fare unesperienza unica in uno dei poli dellarchitettura mondiale «non accademica». Perché - insiste ancora Piano - l«accademia ci può anche stare, ma non può limitare larchitettura» che è libera, dinamica, creativa e funzionale. Certo, ci vuole umiltà di apprendere, prima di esprimersi in un progetto. Anche se, quando è il momento - il momento di decidere - bisogna essere fermissimi: «Larte dellascolto - sentenzia Piano - non è larte dellubbidienza». Poi passa allaneddoto vero: «Avevo 33 anni quando vinsi il concorso per realizzare il museo Beaubourg a Parigi e oggi quando ci passo davanti mi chiedo sempre: ma come hanno fatto a lasciarmelo fare?». Il riferimento gli serve, in chiusura, per sottolineare quanto siano importanti i concorsi «che consentono di dare spazio a chi mette energia, a chi lo merita. Una prassi poco seguita in Italia. La verità triste è che i politici spesso pensano che facendo i concorsi non si possa poi più controllare chi li vince».
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