Alle 16,37 saranno passati quarantadue anni dall’attimo in cui il timer innescò la bomba. La banca di piazza Fontana è ancora lì, e giustamente sulla facciata c’è ancora l’insegna che portava il pomeriggio del 12 dicembre 1969: Banca Nazionale dell’Agricoltura. Una banca che non esiste più se non nella cicatrice lasciata nella storia di questa città, quei sedici morti che segnarono la fine dell’innocenza.
Il pomeriggio del 12 dicembre insieme a quelle povere vittime moriva la Milano del boom economico, della ricostruzione ingenua e speranzosa, la città dove il coraggio meneghino del fare aveva fatto spuntare gli alberi sulle macerie della guerra.
Che una svolta talmente decisiva nella storia di una città e di una nazione possa essere oggetto - come lo sarà stasera - di una seduta del consiglio comunale, è per alcuni aspetti riduttivo e per altri inutile. In discussione non c’è il sacrosanto dovere civile della memoria, ma l’adeguatezza del rito, la capacità della chiacchiera politicante di riportare davvero il senso di quella svolta nella memoria della gente comune.
In soldoni: la strage di piazza Fontana resta più presente ai milanesi di domani se diventa materia da libro di storia o se continua a essere il refrain della commemorazione, del corteo annuale, dei fischi a questo e degli applausi a quello?
Cinque anni fa, nel 2006, la Provincia commissionò un sondaggio nelle scuole superiori milanesi per verificare il grado di conoscenza della strage di piazza Fontana. Il 18 per cento degli studenti non ne aveva mai sentito parlare (nel 2000 era appena il 3 per cento); tra coloro che dichiaravano di esserne a conoscenza, il 43 per cento la riteneva opera delle Brigate Rosse, il 22 per cento dei «fascisti», il 15 per cento dei «comunisti». Insomma, un disastro. E non c’è motivo di pensare che se lo stesso sondaggio venisse rifatto oggi darebbe risultati più confortanti. Semmai il contrario. Quarant’anni di lapidi e di corone di fiori non hanno impedito che svanisse il ricordo della strage e venisse meno la comprensione del suo senso e delle sue conseguenze.
Le condizioni perché la strage vada ad occupare il suo posto nei libri di storia, d’altronde, oggi finalmente ci sono. Non è chiarissimo cosa intenda ieri il sindaco Pisapia quando dice che bisogna arrivare ad una «verità condivisa» su piazza Fontana, e che «abbiamo una verità storica e non una verità giudiziaria».
In realtà la verità giudiziaria c’è, anche se non piace a tutti.
Le indagini e le sentenze della magistratura - che in un paese civile fanno testo più del politicamente corretto - hanno stabilito che la responsabilità fu del gruppo neofascista di Ordine Nuovo di Padova, di Franco Freda e di Giovanni Ventura, e che l’obiettivo della bomba era preparare una svolta autoritaria nel Paese. Brandelli di depistaggi e ombre di collusioni in apparati deviati non sono divenuti certezza. Nelle carte dei processi non viene sancito che piazza Fontana fu una «strage di Stato», non viene certificata la teoria della «mano fascista/regia democristiana» cara agli slogan di allora.
Anche di questo bisognerebbe prendere atto, se si volesse storicizzare seriamente.
Forse proprio per evitare quest’obbligo, e per continuare a coltivare - indignati e fieri - l’orticello delle certezze a priori, si preferisce fingere di ricordare la strage, invece di lavorare perché sia ricordata davvero.Luca Fazzo
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