PIO XII Il volto umano di un Papa

Qui al Giornale il vaticanista Andrea Tornielli e il sottoscritto sono vicini di scrivania e l’essere seduto alla sua destra in fondo mi tranquillizza. Ogni tanto lo sento parlare al telefono con qualche Eminenza, ogni tanto lo incrocio in partenza per qualche viaggio al seguito del Sommo pontefice, a volte mi capita di vederlo in televisione o di sentirlo per radio, in compenso lo leggo sempre. Tornielli è un ragazzo di talento (considero ragazzi tutti quelli più giovani di me... ), con alle spalle una bibliografia di saggista che ne ha fatto una firma di riferimento nel suo campo. L’ultima sua fatica è questo poderoso volume su Pacelli (Pio XII. Un uomo sul trono di Pietro, Mondadori, pagg. 661, euro 24), nelle librerie da martedì prossimo. Per molti versi, grazie anche a documenti d’archivio, inediti, carteggi privati resi per la prima volta pubblici, la biografia definitiva su una figura così complessa, e il fatto che Tornielli mi abbia chiesto di recensirla mi inorgoglisce e mi imbarazza. Mi inorgoglisce perché Pacelli è il mio Papa, mi imbarazza perché non sono credente.
Almeno sul primo punto vale la pena di spiegarsi meglio. Con gli anni si hanno sempre più idee al passato remoto. C’è chi resta legato a come si giocava a pallone negli anni ’70, chi al design dei ’60, chi ritiene che la politica abbia smesso di dire qualcosa dopo Tangentopoli e chi in letteratura si tiene stretto al Gattopardo... Non è soltanto nostalgia, è qualcosa di più sottile e che ha a che fare con l’esperienza e i desideri, le illusioni e la realtà, con la vita, insomma, che ti permette di fare i raffronti, confermare i giudizi, comprendere gli sbagli. E c’è sempre un momento in cui tu cristallizzi in una figura, un oggetto, una data, ciò che per te riassume il meglio di una passione, di un interesse, di un sentimento, di un amore.
Da bambino ho fatto in tempo a vedere dal vivo Pio XII, già vecchio e fragile eppure come indistruttibile, alto e severo senza essere scostante, regale nei gesti e nelle vesti, l’emblema stesso di una potenza disarmata ma invincibile e fin da allora, e per sempre, la Chiesa mi è sembrato dovesse essere quella cosa lì, diversa e magnifica, austera quanto principesca, umilmente orgogliosa, disincarnata e fuori dal tempo, comunque non moderna. Si tratta di valutazioni estetiche che poco hanno a che vedere con la fede e con la religione, e molto casomai con il sacro, ma rimangono per me un dato di fatto che la bonomia e l’umanità di Giovanni XXIII, la sofferenza intellettuale di Paolo VI, l’atletismo mediatico di Giovanni Paolo II non sono mai riusciti a scalfire. Nessuna immagine di pietà e sentimento, di amore e dolore dei pontefici che a lui sono succeduti eguaglierà mai quel senso di drammatica impotenza che si coglie nelle celebri foto scattate il giorno del bombardamento di Roma: Pio XII vestito di bianco, le braccia aperte come Cristo in croce, la folla di San Giovanni che lo guarda e prega. Nessuna manifestazione di popolarità e di grandezza può stare alla pari con l’immagine che lo raffigura sulla sedia gestatoria durante l’apertura della Porta santa del Giubileo nel 1950.
Nella sua biografia Tornielli usa spesso l’aggettivo ieratico e a ragione chiama in causa la pittura di El Greco, perché Eugenio Pacelli fisicamente aveva degli hidalgo spagnoli l’altezza e la magrezza, e caratterialmente un’impazienza e una violenza in seguito dominate solo con grandi sforzi e pagate con la loro somatizzazione. Eppure questo ragazzo impulsivo, che giudicava «l’ipocrisia una viltà» e, da segretario di Stato di Pio XI, durante un’udienza concitata se n’era uscito con un «Vostra santità è il Papa, e può fare questo atto: ma se lo fa, lo fa senza di me», sarà da subito uno dei più fini diplomatici del suo tempo: riforma del conclave, «libro bianco» sulla Francia, codice di diritto canonico, nunziatura a Berlino... Tornielli lo spiega con una sorta di «annientamento» nelle istituzioni, lo scomparire in esse, e questa specie di disincarnazione sarà del resto il suo tratto più saliente, ma anche la sua croce, finendo con il nascondere quegli elementi di più semplice e diretto apostolato su cui l’autore torna, più volte e giustamente, a insistere.
Sui cosiddetti «silenzi» del Papa riguardo il nazismo e gli ebrei, rimando il lettore ai capitoli del libro dove essi vengono, una volta per tutte, smontati: spazzatura su cui non mi va nemmeno di perdere tempo e spazio. Più interessante, a mezzo secolo dalla morte, è ricordare che il conclave che lo elesse fu il più rapido del XX secolo, appena tre scrutinii, non superato neppure nel nuovo da Benedetto XVI (quattro scrutinii come per Giovanni Paolo I); che, dopo duecento anni, fu il primo romano a venire eletto vescovo di Roma; e che, come dirà il suo successore, «io di questioni dottrinali non me ne interesserò, perché ha già fatto tutto Pio XII», non a caso il papa più menzionato nei testi del Concilio Vaticano II... E vale anche la pena ricordare, un’eco della sua impulsività, la battuta da lui fatta all’indomani della morte di Stalin, autore dell’irridente battuta «Il Papa? Quante divisioni ha il Papa?»: «Ora che è morto potrà vedere quante divisioni noi abbiamo lassù».
Gli ultimi anni del suo pontificato, racconta Tornielli, furono particolarmente dolorosi, fisicamente sempre più debilitato, umanamente sempre meno in grado di guidare chi gli stava intorno. Il medico curante, Galeazzi-Lisi, impegnato a vendere notizie eppure mantenuto al suo posto, il maestro di Camera sopravanzato da uno dei suoi sottoposti, gli stessi parenti sempre più tenuti a distanza... Sarà Galeazzi-Lisi a dare a un paio di agenzie di stampa la falsa notizia del suo decesso, il 6 ottobre 1958, sarà ancora lui a vendere le foto che lo ritraggono sul letto di morte, è opera sua la pessima imbalsamazione della salma per la tradizionale esposizione in San Pietro. Uno strazio.

Ma nulla racconta meglio i suoi funerali dell’elogio funebre pronunciato da un Angelo Roncalli ancora patriarca di Venezia: «Viene in mente di chiedersi se il trionfo di un antico imperatore romano verso il Campidoglio avrebbe potuto eguagliare - non quanto a manifestazione di potenza militare, ma a imponenza di dignità, di maestà spirituale ed a penetrazione di sentimento - le proporzioni dello spettacolo che intenerì tanti cuori». Parole che riassumono e spiegano meglio di quanto per tutto l’articolo abbia cercato di fare, perché per il bambino romano che ero quello fosse, allora e per sempre, il mio Papa.

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