Simone Di Meo
Non ci stanno, non ci vogliono, non ci possono stare. La decisione del gip non gli è andata giù. E così tentano il tutto per tutto, i pm che indagano sulla presunta estorsione a Silvio Berlusconi. Arrivando a smentire il loro stesso procuratore, Giovandomenico Lepore, che 48 ore prima - alla notizia che il gip Amelia Primavera aveva disposto il trasferimento del fascicolo da Napoli a Roma - aveva garibaldinamente risposto: «Obbedisco». Passata ’a nuttata , ieri mattina i pm hanno chiesto l’annullamento dell’ordinanza con cui il giudice Primavera si è accorta (con quattro mesi di ritardo) che la procura napoletana non può continuare a investigare, scatenando così la reazione del Pdl che ha sollecitato il Guardasigilli ad inviare gli ispettori in Procura per indagare sul «ripensamento» del pool inquirente.
I pm partenopei sono convinti di poter ancora dire la loro. Carte alla mano, affermano che il luogo della prima «dazione» non è stato individuato con assoluta certezza. Tanto il Cavaliere, nella sua memoria scritta, quanto la sua segretaria, Marinella Brambilla, interrogata, hanno ammesso che alcune somme di denaro sono state effettivamente consegnate a Lavitola e alla moglie di Tarantini, presso l’abitazione romana del Premier. Prima di questi pagamenti, per i pm, però, ce ne sono stati altri che non si sa dove siano avvenuti. Ma così facendo, i pm ammettono che si tratta di un’unica estorsione. E che cosa prevede il codice di procedura penale in casi del genere, quando cioè il reato è unico ma non si conosce il luogo di consumazione dello stesso (il primo pagamento, nel nostro caso)? Semplice: il procedimento si radica nel luogo in cui si è sviluppata l’ultima parte dell’azione. Che, guarda caso, è ancora Roma, come si evince chiaramente dalle intercettazioni tra la Brambilla e Lavitola e dalla stessa memoria del premier. Che per i pm è «inattendibile» e «lacunosa», «anzi deliberatamente creata in modo funzionale a procrastinare il momento di chiarimento dei fatti anche attraverso lo spostamento del processo ad altra sede». Ma non è tutto: per convincere il gip a rimangiarsi la decisione, i pm si rifanno a una sentenza della Cassazione del 2003 che riconosce la possibilità al giudice di revocare la propria dichiarazione d’incompetenza territoriale. Vero, verissimo: peccato, però, che i pm non dicano che questa massima della Suprema Corte non si può applicare alla vicenda napoletana, trattandosi di un caso eccezionale in cui era già stata esercitata l’azione penale con un giudizio immediato e che la revoca della precedente dichiarazione d’incompetenza serviva a eliminare un atto nullo. Che dire: c’hanno provato.
Malgrado i tentativi in extremis della Procura, quindi, tutto sembra portare il fascicolo verso Roma, a meno che i magistrati vesuviani non riescano a dimostrare che i soldi sono stati pagati all’estero. In quel caso la procura partenopea potrebbe conservare la titolarità dell’inchiesta. Per sapere come andrà a finire bisognerà però aspettare domani, quando il tribunale del Riesame tornerà a riunirsi per esaminare le istanze di scarcerazione avanzate dai legali di Tarantini (Alessandro Diddi e Ivan Filippelli) e di Lavitola (Gaetano Balice). I giudici hanno infatti condiviso il ragionamento della difesa di Lavitola sull’opportunità di attendere la risposta del gip alla richiesta dei pm.
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