Poca guerra e molta retorica così muore il reporter al fronte

Poca guerra e molta retorica 
così muore il reporter al fronte

Il reportage di guerra è da sempre considerato il vertice della professione giornalistica. E tra tutti gli inviati - già di per sé una categoria d’eccellenza - il war reporter è il «Principe». Il motivo? Con il suo appetibile côté epico, drammatico e letterario, la guerra, qualsiasi guerra, significa audience e tirature. Un esempio per tutti: mai la carta stampata ha venduto così tanto come nelle settimane successive all’11 settembre o come nei giorni dell’attacco di terra nei due conflitti del Golfo, 1991 e 2003. I giornali, così come le televisioni, lo sanno bene, e in questo settore investono volentieri uomini e mezzi. Quando c’è un massacro, il pubblico non manca mai. Quando c’è un massacro non manca mai un war reporter. Il primo della storia, lasciando nell’Olimpo Erodoto e Tucidide, fu probabilmente il pittore Willem Van de Velde, specializzato in dipinti di combattimenti navali. Nel 1653, oltre alle illustrazioni di uno scontro tra la flotta olandese e quella inglese di cui fu testimone, stese anche un dettagliato rapporto scritto. Nasceva così il giornalismo di guerra: un’epopea che un cronista di questa stessa «razza», Oliviero Bergamini, racconta nel suo Specchi di guerra (Laterza), un resoconto appassionato e terribile su «Giornalismo e conflitti armati da Napoleone a oggi», come recita il sottotitolo, del quale però l’aspetto più interessante - paradossalmente - non è tanto ciò che i reporter hanno di volta in volta scritto su quello che vedevano. Quanto ciò che hanno taciuto. Dai dispacci che Bonaparte scriveva di propria mano fino ai servizi molto «partecipativi» di Al Jazeera, il rapporto tra informazione e potere si è sempre rivelato un campo minato dove la «fedeltà» alla notizia è stata spesso tradita da complesse e pericolose liaisons, fra controlli, (auto)censure, condizionamenti e manipolazioni. Certo, sono esistiti e continuano a esistere virtuose eccezioni, giornalisti che hanno fatto sino all’ultima riga il proprio dovere, offrire cioè un resoconto «oggettivo» sul quale il pubblico possa formarsi un’opinione di quanto accade. Lo fece William Russell, il primo vero corrispondente di guerra, quando nel 1854 per il Times di Londra seguì la guerra di Crimea, anteponendo i fatti al patriottismo. Lo fece Luigi Barzini quando da maestro raccontò al mondo la guerra russo-giapponese. Lo fece il fotoreporter Robert Capa, soprattutto sulle spiagge della Normandia. E lo fece, ad esempio, Martha Gellhorn, la capostipite di tutte le inviate di guerra, terza moglie di Hemingway, la quale «coprì» tutti i grandi conflitti del ’900, dalla guerra civile spagnola, che seguì per conto del Collier’s Weekly e in competizione con il compagno Ernest, fino all’invasione americana di Panama, nel 1989, quando aveva 80 anni. «I veri inviati di guerra - diceva - non prendono appunti ma sanno d’istinto che cosa rimane importante per sempre». Ciò che ritenne importante, alla fine, lo mise in un libro culto apparso la prima volta nel 1959 e più volte aggiornato, che oggi esce anche in Italia: I volti della guerra. Cinquant’anni al fronte (Il Saggiatore). Per il resto, stretto fra gli interessi commerciali e politici del proprio editore e le sempre più sofisticate strategie di controllo dei media da parte dei governi (le libere democrazie a volte più dei regimi totalitari), il giornalismo di guerra ha raccolto più sconfitte che vittorie. La guerra civile americana fu seguita da più di 300 «corrispondenti» al seguito delle due armate, l’unionista e la confederata, ma la qualità media del loro lavoro fu bassa. Articoli fumosi e generici, e per il resto lunghe tirate retoriche contro il «nemico». Il primo conflitto mondiale vide pochi scoop e tanta censura: un’informazione piegata a sostenere il fronte interno, pervasa da un’ideologia acriticamente nazionalistica e schiacciata dalla propaganda. Il lapidario giudizio espresso già nel 1928 dal politico e scrittore inglese Arthur Ponsonby vale ancora oggi: «Nella storia del giornalismo non c’è mai stato un periodo tanto vergognoso quanto i quattro anni della Grande Guerra». E durante la Seconda guerra mondiale? Gran parte delle informazioni prodotte dagli oltre 3mila giornalisti mobilitati non consisteva in corrispondenze di prima mano dai vari fronti, ma dalla massa di notizie elaborate sulla base dei comunicati ufficiali, delle veline e delle note politiche, militari e diplomatiche. Tra demonizzazione del nemico, esaltazione delle vittorie, minimizzazione delle sconfitte si stese un mediocre «pezzo» che ebbe come incipit la propaganda e come chiusa la censura. Nulla, a esempio, trapelò sulla macchina Enigma, il progetto Manhattan rimase segreto, tutti tacquero sulla «soluzione finale». E molto probabilmente la foto-simbolo di Iwo Jima è un falso. Del resto, un campione della «libertà» e della «strategia della verità» come Winston Churchill - non Stalin o Hitler o Mussolini - ebbe a dire: «La parola “disfatta” riferita a una nostra condizione in battaglia non dovrebbe essere usata quando è falsa. E ancora meno quando è vera». Senza ricordare l’addomesticamento della stampa da parte degli Stati Uniti per tutta la durata del conflitto... Per quanto riguarda la Corea basti dire che furono gli stessi giornalisti a chiedere che venisse imposto un sistema di censura formale; e per il Vietnam, gli storici hanno da tempo sfatato la leggenda secondo la quale furono i media a far perdere la guerra agli Stati Uniti. Tv e giornali nel primo periodo furono più che patriottici e «favorevoli» all’intervento: i direttori cestinavano i servizi più scomodi, preferendo dare spazio alle versioni del Pentagono. Fu solo quando montò la protesta interna e quando fu ormai chiaro che la guerra era persa, che la stampa cambiò «bandiera». E anche l’inchiesta giornalistica sullo scandalo più grosso del conflitto, il massacro nel villaggio di My Lai da parte di un plotone impazzito dei marines, fu respinto da Life e da Look prima di essere acquistato da un’agenzia di stampa minore. E le due guerre del Golfo, quelle della «copertura» totale e dei bombardamenti portati dentro il salotto di casa? Quando nel gennaio del 1991 il mitico Peter Arnett commentava dalla terrazza dell’Hotel Rashid di Bagdad le immagini della Cnn sulla prima guerra in diretta televisiva della storia, ci rendemmo ben presto conto che sui nostri schermi c’erano solo buio e traccianti verdi. Niente aerei niente morti niente sangue. È stata chiamata la «guerra invisibile». Nel secondo intervento nel Golfo, in Irak, l’Amministrazione americana è andata ancora più in là nell’offrirci l’illusione della «verità». Ha inventato i giornalisti embedded, «incastonati» all’interno delle truppe. Un mezzo bluff. Tutti dovevano sottoscrivere una lunga lista di regole, la maggior parte finì nelle retrovie e gli altri, portati per mano verso un giornalismo «combat» che gettava un velo di spettacolarità sul conflitto, finirono per produrre materiale quasi sempre più che gradito al Pentagono. E quando un cameraman free-lance, embedded a Fallujah, riprese un soldato americano mentre sparava a un guerrigliero iracheno ferito, suscitando un caso mondiale, più che una tragica fatalità si trattò di un marchiano errore mediatico.

Per il resto, c’è già chi è pronto a scommettere che la «libertà» dell’informazione, ormai, è oltre l’ultima frontiera dei media digitali, là dove chiunque, armato non più di taccuino e penna, non più di macchina fotografica, non più di computer portatili e telefoni satellitari, ma di un semplice cellulare collegato a Twitter, può comunicare in tempo reale a tutto il pianeta una rivolta in Iran o un colpo di stato in Honduras. Lo street journalism applicato alle zone «calde» del pianeta. In 140 caratteri massimo. Senza censura, ma spazi inclusi.

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