Le poesie segrete dell’arte italiana

«L’artista è come il baco da seta che nello spurgo trova la sua trasparenza» scriveva lo scultore Arturo Martini per il quale il verso poetico non aveva meno peso specifico del legno, della pietra, della creta e del bronzo. Nella sua «Cantata di prologo», la parola si affida all’anima, che «questa solo ha il diritto di confessarsi a Dio attraverso quell’oggetto che si chiamerà arte». È soltanto una delle testimonianze raccolte in una mostra inaugurata in questi giorni al Palazzo della Permanente che mette in luce le passioni liriche di numerosi artisti visivi del Novecento. Da Soffici a Boccioni, da Carrà a De Pisis, da Rosai a Melotti, pittori e scultori si rifugiavano nella poesia quando la materia non bastava ad esprimere le immagini interiori. Ma spesso la parola scritta si incarnava direttamente nell’opera d’arte e serviva a renderne più efficace il messaggio. In molti casi era un percorso totalmente autonomo, segreto ed elegantemente svelato nella mostra a cura di Flaminio Gualdoni e Alberto Pellegatta, che affianca alle forme pittoriche note al pubblico e alla critica, elegie rare o spesso trascurate. Come i versi scarni e intensi di Filippo De Pisis, pittore di raffinati paesaggi che materializzava anche nelle sue poesie, apprezzatissime da Eugenio Montale. In Alberi spogli, i suoi versi scorrono come pennellate: «Dal muro alto sporgono alberi spogli, forche, braccia, grucce (...) La conifera scura resiste al gelo, il platano più alto (belle macchie sul tronco glorioso) ha ancora qualche foglia d’oro (...)». De Pisis, come pure il contemporaneo Soffici, vantava del resto un solido talento anche nella scrittura, percorso addirittura precedente a quello della pittura con la pubblicazione in età giovanile di un volume di versi intitolato «Canti della Croara».
I testi ricalcano atmosfere spesso vicine alla cifra stilistica degli artisti. Così in Fausto Melotti, scultore ritmico e musicale, quando impugna la penna e descrive «variopinti acquarelli, le viole del pensiero non sono tutte viola mentre le viole mammole hanno il colore della penitenzae l’oscuro profumo delle donne amate (...)». E ancora i versi di Scipione, paladino della Scuola romana, che raccontano il Solstizio quando «la terra s’alza, il ventre suona vuoto, i seni s’allungano, precipitano verso terra (...)». Per altri artisti, la scrittura rappresentava un linguaggio assolutamente coerente alla loro ricerca artistica. Come nel caso dei futuristi Boccioni e Carrà le cui «sperimentazioni letterarie» compaiono anche nei dipinti e nei collage quale strumento fondamentale per un’arte «totalmente nuova» rispetto al passatismo. Il tono ridondante e marziale denso delle parolibere care a Marinetti, esplode nei versi «Uomo + Vallata + Montagna» scritti dall’autore della Città che sale: «(...) Aquila volare cravatta nastro spilla silenzio nel pendio battito del cuore (ticche-tac ticche-tac) brontolio di budella (...)».

In questo filone, non poteva mancare chi, come Ugo Carrega, fu pioniere di quella «Poesia visiva» che all’inizio degli anni Sessanta propose la scrittura come mezzo per l’evocazione di un significato da portare sulla tela, espressione di una forma che «ha corpo dalla mente alla mano».

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