Politica economica

Una manovra tra gli scongiuri appesa agli annunci della Bce

La caccia alle risorse resa più problematica da un nuovo rialzo dei tassi e dalla voragine creata nei conti pubblici dai vari bonus

Una manovra tra gli scongiuri appesa agli annunci della Bce

Se è chiara la direzione che il governo Meloni ha deciso di imboccare per impostare la manovra di bilancio, meno chiaro è dove intende reperire le risorse necessarie visto che la premier non prevede tagli. Né sarà d’aiuto la congiuntura economica, che dopo un primo trimestre esaltante ora sembra più incline a fare passi indietro a velocità crescente. Pochi i rischi di recessione, assicura il commissario europeo Paolo Gentiloni; e tuttavia in Confindustria hanno cominciato a fare gli scongiuri: segno che i rischi non sono pochi.

Il tutto sotto la minaccia di un nuovo rialzo dei tassi, visto che dalla Bce non giungono segni di inversione nonostante l’inflazione stia gradualmente calando e in barba all’ottimismo del governatore Ignazio Visco. E se i primi a patire le conseguenze di questa ostinata politica di breve termine sono il cittadino gravato da un mutuo e la piccola impresa indebitata con le banche – situazioni assai diffuse nel nostro Paese - l’effetto a catena sul sistema si traduce in una caduta del Pil (ogni decimo di punto perduto costa allo Stato 2 miliardi di entrate in meno) e nell’aumento generalizzato del debito nel mentre le principali economie mondiali, alle quali siamo legati da importanti scambi commerciali, sono a loro volta alle prese con rallentamenti di intensità non prevista con conseguenze dannose sul nostro export.

Questo è lo scenario nel quale il governo è chiamato a concepire la sua prima vera Legge di Stabilità, con un bilancio devastato dalla bomba Superbonus (il buco potrebbe arrivare a quota 150 miliardi) e da altre costose mance introdotte dal governo giallo-rosso, e con il Patto di Stabilità ormai alle porte, che quand’anche trovasse applicazione in una nuova versione (ma l’accordo ancora non si intravede), impone un percorso decisamente meno agevole di quanto non lo sia stato per i governi Conte e Draghi che, va ricordato, hanno operato in sospensione delle regole europee di bilancio.

A questo proposito va citata la curiosa osservazione di Gentiloni, che nel tentativo di convincere l’Italia ad accogliere la proposta del nuovo Patto elaborata da Bruxelles, si premura di “avvertire” che qualora si arrivasse a fine anno senza accordo, scatterebbe immediatamente l’applicazione delle vecchie regole sebbene, ammette egli stesso, «del tutto inadatte a promuovere la crescita e a ridurre sostanzialmente il debito». Ma se sai che producono nulla di buono, che «sono un brutto rischio», che senso ha reintrodurle? Solo perché lo pretende la “virtuosa” Germania, che poi tanto virtuosa non è? Non sarebbe meglio battersi per prolungare di un altro anno la sospensione, magari in previsione di un accordo più lungimirante e quindi maggiormente condiviso?

Singolare modo di ragionare, quello del commissario. Persino l’austero Mario Draghi si è convinto del fatto che per tenere insieme l’Europa sono necessarie più flessibilità e più condivisione. Tra l’altro, non sembra che i principali partner europei, Germania in testa, stiano a loro volta vivendo una nuova età dell’oro, anch’essi appesantiti da un costo del denaro aumentato del 400% in un solo anno e rallentati da un export che sta subendo i colpi del nuovo “ordine mondiale”. Ciò significa che anch’essi avranno bisogno di maggiore flessibilità. Appare perciò comprensibile che all’interno del governo vi siano ancora resistenze a sottoscrivere la nuova versione del Meccanismo europeo di stabilità - il famigerato Mes - se ciò può servire a rendere il Patto di stabilità meno rigido in materia di computo della spesa per investimenti.

Tutto questo per dire che pretendere miracoli dalla manovra verrebbe letto come una vile provocazione, soprattutto se le richieste dovessero partire dalle file della maggioranza. Del pari, è sconsigliabile che nella ricerca delle coperture si replichi nel solco della tassa sui profitti delle banche, perché se il principio trova giustificazione nella logica per cui «tutti debbono contribuire», le modalità con le quali il provvedimento è stato annunciato non sono d’aiuto al Paese: gli investitori esteri hanno buona memoria, e se li affronti senza le dovute attenzioni il credito accordato potrebbe ridursi, e persino svanire di fronte a un nuovo strappo. Inoltre, così facendo si scoraggiano banche da tempo impegnate nel sociale, come è il caso di Intesa Sanpaolo. Per questo, se davvero si vogliono aiutare le piccole e medie imprese gravate da debiti deteriorati, è necessario seguire strade diverse da quelle suggerite da alcune voci della maggioranza: obbligare i fondi detentori a vendere sottocosto i crediti deteriorati, fissandone il prezzo per legge, oltre a cambiare le regole in corsa (sconsigliabile per molti motivi) equivarrebbe ad azzerare il concetto di mercato.

Né vale l’idea che per fare cassa in fretta sia necessario svendere parte del patrimonio industriale quotato e non quotato, quando si possono allocare diversamente risorse che da decenni ammorbano il bilancio dello Stato. Persino nel caso di Banca Mps, sebbene l’anomalia del controllore che possiede il controllato vada sciolta quanto prima per evitare indesiderate distorsioni, prima di pensare alla sua valorizzazione vale la pena di attendere che il costoso investimento del Tesoro produca frutti concreti.

Ciò, sempre che l’ansia di «ritenzione» manifestata da alcuni esponenti della Lega durante il Forum Ambrosetti non celi altre ambizioni: non ha portato bene l’ultima volta che qualcuno esclamò euforico «Allora abbiamo una banca!».

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