
L'ultimo sondaggio congiunto di ABC News, Washington Post e Ipsos rileva che solo il 39% degli americani approva l'operato di Donald Trump. I numeri sembrano parlare chiaro. Tuttavia, il quadro è più sfumato, e più complesso, di quanto dice quella percentuale. Perché, se si scava sotto la superficie, emerge un altro dato, forse anche più rilevante: il 94% di chi lo ha votato, pur non approvando diverse delle sue decisioni, non si è pentito.
Il paradosso è solo apparente. In un'epoca segnata dalla disillusione verso la politica e dal crollo della fiducia nelle istituzioni, Trump si conferma una figura capace di parlare a una parte del paese non solo con slogan e frasi a effetto, ma con veri e propri codici emotivi. Il suo consenso, più che misurarsi sulla base dei risultati ottenuti, sembra poggiarsi sulla percezione di appartenenza, identità e rappresentanza simbolica. Trump offre alla sua base una narrazione semplice ma potentissima: noi contro di loro, il popolo contro le élite, i dimenticati contro i privilegiati. È un linguaggio binario, privo di sfumature, ma altamente gratificante per chi si sente escluso dal discorso pubblico dominante, mainstream.
Lo stesso sondaggio rivela, peraltro, che il 60% degli americani lo considera fuori sintonia rispetto alle priorità del paese.
Ma la critica agli altri attori politici è ancora più severa: il 69% boccia il Partito Democratico, e il 64% considera fuori fase anche quello Repubblicano. In un paesaggio politico frammentato e disilluso, Trump dunque non appare come il migliore, ma sicuramente come il meno distante. Per milioni di americani resta l'unico in grado di vederli, di riconoscerli, di dare voce a quel risentimento che nessun altro rappresenta e canalizza con altrettanta forza.
E così, mentre media e opinionisti si interrogano sull'impatto delle sue decisioni dai nuovi dazi alle maxi-espulsioni annunciate, dalla deregulation ambientale alla guerra culturale contro le università Trump rilancia la sua narrativa preferita: il popolo contro l'élite, il presidente contro il sistema. Alla convention organizzata per celebrare i primi 100 giorni di governo, ha ribadito i soliti bersagli: sondaggi truccati, stampa ostile, establishment traditore. Il messaggio, come sempre, è stato chiaro: gli attacchi non sono rivolti solo a lui, ma all'America che rappresenta. Quando contestano Trump, è l'intero popolo MAGA a sentirsi colpito. È anche così che si alimenta quel tono epico e identitario con cui si rivolge ai suoi.
Nonostante un'agenda controversa, quindi, Trump continua a nutrire un'immagine di forza e coerenza presso i suoi sostenitori. È visto come colui che fa quello che promette. Non importa quanto urti, quanto
divida, quanto esasperi: l'essenziale è che colpisca loro.
Come molti analisti hanno osservato, c'è qualcosa di quasi messianico nel rapporto tra Trump e la sua base. Ogni accusa rivolta a Trump è percepita come un'aggressione collettiva. Ogni resistenza, una prova del fatto che sta combattendo per noi. Il disallineamento tra la debolezza nei numeri assoluti e la forza simbolica e affettiva del suo consenso interno rende il trumpismo il movimento politicamente più compatto e motivato d'America.
A contare, più dei numeri, sono quindi le emozioni. In un'epoca in cui dati e fatti sono spesso filtrati da una lente di sospetto, ciò che si sente vero vale più di ciò che è verificabile. Il percepito non solo vince sulla realtà, la plasma. È su questa dinamica profondamente umana e pienamente contemporanea che Trump ha costruito, e continua a costruire, la sua leadership.
Viviamo una stagione
politica in cui la convinzione conta più della mediazione e Trump la interpreta perfettamente, continuando a porsi più come un vessillo che come un presidente. Ferito, ma non domato. E ancora una volta pronto alla battaglia.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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