
Sarà un addio lungo e difficile alla guerra che per 734 giorni ha disegnato la mia vita. Sarà un addio pieno di flashback e presenze che portano con sé ferite eterne, e anche una gran voglia di svoltare. Ma cambierà: sarà addio alle prime notizie della mattina alle 6 in cui la voce del giornalista dice che è «mutar le pirsum», permesso rendere noto il nome di chi è caduto in guerra. Chi per fuoco di cecchino, chi per esplosione, chi nell’incendio del suo tank. Chi cercando di salvare il corpo di un rapito. Chi per salvare un compagno ferito. Addio alla paura egoista che si tratti di una persona cara, del figlio di un’amica, di un parente. Quando avviene chiedi, telefoni, insisti... non ci credi mai. Addio al pianto che non si addice a una giornalista, al funerale lungo una strada gremita di folla e di bandiere mentre passa il feretro di un soldato ragazzo odi un cinquantenne delle riserve, il miluim, al senso di gratitudine per l’indispensabilità del suo gesto, per la casualità della sua morte.
Addio alla sirena a tutte le ore, soprattutto a quella in mezzo alla notte, che in un baleno vede per primi i bambini pronti con una bottiglia d’acqua sulla porta. Addio all’attesa silenziosa coi vicini nel rifugio, mentre fuori si sentono gli scoppi, grati al sistema di difesa e con la radio accesa finché viene il segnale di uscire. Addio alla corsa ansiosa quando il segnale si farà sirena in tutte le strade e i bum colpiscono le orecchie. Addio al ruggito lontano degli aerei da combattimento, diretti ora in Iran, ora in Libano, ora a Gaza. Addio alla spaventosa notizia che il maestro di tuo figlio è stato ucciso in Libano, addio alle visite di condoglianze. Troppo amore, troppo onore, l’uomo ha bisogno di sentimenti moderati e qui vorresti invece dargli l’anima. Addio alla saggezza di chi insegna a scuola, di chi vende e compra frutta e vestiti, di chi va a ginnastica come niente fosse, ai dottori negli ospedali, ai politici di tutte le parti che alla Knesset e per strada litigano e si danno da fare come niente fosse; allo spettacolo stupendo dell’irruzione gioiosa in casa di un ragazzo proveniente sporco dal fronte che abbraccia i suoi con tutte le sue forze e annuncia che ha tre ore per mangiare, dormire, fare la doccia. Addio alle iniziative dell’ottima comunità degli italiani a Gerusalemme che compiono la raccolta e la semina del lavoro agricolo sotto il lancio dei missili dei contadini: raccolgono i frutti, organizzano gruppi di aiuto donando giornate e giornate di lavoro. Addio alle iniziative femminili che preparano a proprie spese pasti per i soldati, che raccolgono indumenti e altri generi, ai gruppi di studio perché un ebreo, una ebrea, devono sempre studiare mentre cercano di sopravvivere.
Addio all’annuncio che si è formato un nuovo comitato di vedove, di aiuto ai bambini. O che si cercano volontari per un camion di pedicure al fronte per i piedi feriti da mesi rinchiusi in duri scarponi. A un collega di più di 70 anni che annuncia che si può essere utile anche a quell’età. Addio alle visite di lavoro agli ospedali dove si riabilitano migliaia di ragazzi che hanno perso gli arti, la parola, gli occhi, la pace, e che erano e saranno incredibili inventori di high tech, cantanti, musicisti. Addio all’autista che mi ha portato a Sderot e a Be’eri due giorni dopo l’eccidio del 7 ottobre, che con me si è buttato per terra con le mani in testa mentre la sirena ci coglieva sulla strada. Addio al tono risoluto, gentile, rispettoso con cui la gente ha espresso la propria determinazione nell’andare avanti e salvare il proprio piccolissimo Paese mentre la politica creava il solito scontro estremo: è fantastico che non abbia rotto né incrinato il fronte.
Addio alle manifestazioni furiose dei parenti degli ostaggi, alle minacce ai politici, alle scritte sui muri e all’assedio alle loro vite. Addio all’ossessione delle notizie. Addio cuore di plastilina raccolto nel giardino d’infanzia di Be’eri nel sangue e ora incorniciato sulla mia scrivania.