
Sulle colline attorno a Gerusalemme, i cartelloni elettorali non sono ancora comparsi, ma la campagna è già cominciata. Benjamin Netanyahu, due anni dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, cerca di riprendere il controllo della narrazione e della sua fragile coalizione. Ha voluto che la guerra non si chiamasse più Spade di ferro, ma Guerra della Redenzione: un nuovo nome per segnare una fase diversa, più politica che militare, mentre il Paese resta diviso tra chi invoca unità e chi chiede conto dei fallimenti di allora.
Le famiglie di molti soldati uccisi in battaglia, però, si rifiutano di modificare le iscrizioni sulle tombe. Per loro – e per gran parte dell’opinione pubblica – resterà sempre “la guerra del 7 ottobre”, nata dalla sorpresa e dai fallimenti di quel sabato nero. "È un tentativo di riscrivere la Storia", accusa Yaakov Katz, ex direttore del Jerusalem Post. "Nessun nuovo nome potrà cancellare le responsabilità politiche e militari di allora". Dietro la scelta del nome, si muove la campagna elettorale di Netanyahu. Il voto è previsto per l’autunno del prossimo anno, ma la tensione politica cresce e il premier scommette di arrivarci alla guida di una coalizione compatta, costruita a colpi di concessioni.
Il primo destinatario è Itamar Ben-Gvir, ministro per la Sicurezza nazionale e leader dell’estrema destra dei coloni. Netanyahu ha accolto la sua richiesta di classificare le organizzazioni criminali che operano soprattutto nei centri arabi del Paese come gruppi terroristici. In questo modo lo Shin Bet, i servizi segreti interni, potrà occuparsi direttamente delle indagini e sorvegliare cittadini israeliani. I precedenti capi dello Shin Bet si erano sempre opposti a questa estensione di poteri, ma l’attuale direttore, nominato dallo stesso Netanyahu, ha dato il via libera. Dall’altro lato, un’opposizione frammentata ma crescente, guidata da Benny Gantz e Yair Lapid, che accusa il premier di “barattare la stabilità dello Stato con il silenzio degli estremisti”.
Ancora più cruciale per la tenuta del governo è il fronte ultra-ortodosso. I partiti religiosi, usciti formalmente dalla coalizione in estate, continuano ad appoggiare il premier dall’esterno, condizionandolo però su un punto chiave: l’esenzione dal servizio militare per i giovani haredim. È una consuetudine che risale alla fondazione dello Stato, rinnovata di volta in volta da governi di destra e di sinistra. Ma dopo due anni di guerra, la parte laica della popolazione, che ha visto i propri figli in prima linea e nei reparti di riserva, non è più disposta ad accettarla. I riservisti, richiamati per mesi al fronte, vedono nel privilegio un’ingiustizia insostenibile; i partiti laici, da Yesh Atid a Israel Beitenu, hanno promesso di bloccare la legge “in nome dell’uguaglianza dei doveri”. Netanyahu, stretto tra la pressione dell’opinione pubblica e la necessità di conservare la maggioranza, cerca una mediazione che per ora non esiste: il testo in preparazione riduce gli arruolamenti tra gli haredim e rinvia ogni sanzione, ma non soddisfa né i religiosi né i laici.
Netanyahu sa che deve comunque concederla se vuole mantenere il sostegno dei religiosi. Nella Knesset è in preparazione un testo che riduce drasticamente il numero di studenti delle scuole rabbiniche da arruolare ogni anno e rinvia l’applicazione di eventuali sanzioni ai renitenti. Gli ultra-ortodossi chiedono inoltre di blindare per legge il diritto a proseguire gli studi religiosi senza limiti d’età, mentre i partiti laici annunciano battaglia.
Sul piano politico, il premier gioca così una partita doppia.
Da un lato prova a riscrivere il linguaggio della guerra, presentandola come un capitolo di redenzione collettiva; dall’altro costruisce un sistema di alleanze che, a colpi di concessioni, gli permetta di sopravvivere al logoramento interno e di arrivare al voto come garante dell’unità nazionale.