Se a Palazzo si balla la fine dell’impero

Trump ha inaugurato una "ballroom" alla Casa Bianca, ma non è di buon auspicio

Se a Palazzo si balla la fine dell’impero

Cheesecake verso Sachertorte. Philip Roth, autore de Il Complotto contro l'America, verso Joseph Roth, cantore della finis Austriae. Washington contro Vienna. Insomma, come resistere? Come astenersi da un parallelo tra il declino dell'Impero Austro-Ungarico, coi suoi dorati saloni da ballo illuminati da centinaia di fiammelle a gas, e il magniloquente progetto della ballroom trumpiana da 8.400 metri quadrati alla Casa Bianca?

Bagliori a confronto, bassi imperi a confronto, balli e balle a confronto, declinanti grandeur a confronto, ultimi fuochi e ultimi dazi. Irresistibile. L'Austria degli Asburgo non era più invincibile, e brillava come una stella spenta di cui giungevano luci d'altri tempi: luce, sì: bagliori anche negli occhi delle donne, celati dalle velette dei cappelli di piume, avvoltolate nei manicotti di pelliccia, stordite da quella musica seducente; e bagliori anche negli occhi delle ultime suprematiste bianche americane (se non sono andate in procura a denunciare molestie) mentre il Presidente, Trump, ascolta le sue musiche preferite, che sono My Way di Sinatra, We Are the Champions dei Queen e Eye of the Tiger dei Survivor, quella di Rocky 3.

Vienna, le anse del Danubio, le piane verdeggianti, il Prater, l'aroma del gulasch sparso per le vie, le cantine coi soffitti a botte in cui spillare la migliore delle birre, e il caffè con la panna a metà pomeriggio, le cene col tacchino e le aragoste e le oche e il Borgogna, le uniformi, i vetturini e le carrozze nella neve che silenziose conducevano gli amanti in segrete garçonnière, o finalmente al ballo, epidemia della sera, tutti impazziti al ritmo di ¾; Vienna troppo bella come la sua musica che già allora suonava come un inconsapevole commiato, come un preannuncio di imminente catastrofe. E poi, ora, Washington, stucchi dorati e capitelli in polistirolo, buffet a base di cheeseburger serviti su porcellane da Limoges, e questo progetto di prima e vera sala da ballo nella storia della Casa Bianca, collocata nell'ala est, a pochi passi dal Rose Garden già ristrutturato sotto la supervisione di Melania: una sorta di Mar-a-Lago portato nel cuore istituzionale della repubblica, con lampadari oversize, dettagli neobarocchi, spazi per 650 invitati seduti. «Non c'è mai stato un presidente bravo nelle sale da ballo», ha detto Trump, come se fosse una lacuna costituzionale. E c'è da capirlo: se il potere è diventato performance, che cosa meglio di un salone con capienza teatrale per rappresentarne l'essenza?

La distanza è storica, simbolica e insieme grottescamente minima: da Vienna a Washington, da Francesco Giuseppe a Trump, l'arte della danza come suprema illusione di controllo sul declino. Là i valzer di Strauss e le dame in crinolina, qui un americano scomposto che raramente danza, ma che sempre si mette in scena.

Il paragone con l'Impero Austro-Ungarico non è forzato per niente. Anche all'alba del Novecento si danzava sopra la faglia: Vienna era la capitale di un equilibrio impossibile tra popoli e classi e nazionalismi che non volevano più farsi corteggiare: ma, sinché si ballava, tutto sembrava in ordine, gli specchi riflettevano solo la superficie. Così, anche oggi, gli Stati Uniti sono sempre più divisi al loro interno e sono logorati nelle istituzioni, assediati da un mondo che non li teme come prima (non sono i soli) ed ecco che allora pensano a rinnovare gli spazi per le feste. Il dorato vince sul solido, l'illusione al progetto: i veri imperi non cadono con una cannonata, ma con un valzer, o, al limite, con un post su Truth Social.

Trump non è solo un presidente ex presidente, è un costruttore di atmosfere: Mar-a-Lago è già il suo Schönbrunn, la sua Versailles senza storia, la sua corte privata dove l'etichetta è fai-da-te e il potere è un selfie. Portare questo modello nella Casa Bianca è stato il gesto simbolico di chi non vede più confini tra il pubblico e il privato, tra democrazia e dinastia. L'architettura, come sempre, rivela più della politica: la sua è la prima modifica strutturale alla residenza dal Truman Balcony del 1948, un'aggiunta pensata non per la funzione, ma per la visione. Più scena, meno Stato.

L'impero austro-ungarico si consumava in feste sempre più elaborate e decreti sempre meno efficaci, mentre i segnali del collasso si moltiplicavano: attentati, tensioni etniche, crisi economiche. Anche oggi gli Usa vivono le loro contraddizioni: l'isolazionismo si fa strada sotto forma di dazi e di proclami nazionalisti, i confini si chiudono, le alleanze scricchiolano. La guerra non è (ancora) con le bombe, ma con le tariffe. Non c'è un Saladino, c'è la Cina e dintorni. Intanto si costruisce una sala da ballo.

È una scenografia perfetta per un potere che non governa ma che si rappresenta: la democrazia diventa coreografia e lo Stato si mette in posa. È la politica dell'evento: l'importante non è che cosa accade, ma come appare.

La White House State Ballroom non sarà solo un luogo di ricevimento: sarà un monumento al post-imperialismo americano, una pista da ballo per un ordine che traballa. Forse non è un caso che tutto avvenga nell'East Wing, ala nata nel 1902, l'anno in cui la monarchia austro-ungarica iniziava il suo ultimo e stanco respiro. Anche allora si ristrutturava, si ampliava, si lucidava: sinché la storia bussò coi suoi stivali infangati.

Trump sogna balli al chiuso perché piove o nevica come a Vienna, e lo sa, lo ripete di continuo di ogni cosa: «E' un disastro». Ma al ballo non rinuncia. L'orchestra accorda gli strumenti, e l'impero quale che sia si specchia ancora una volta nei suoi lampadari. E danza.

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