La sindrome del respiro corto per chi si affretta a giudicare Donald

È ben paradossale che il fallimento trumpiano sia invocato con particolare veemenza sul versante progressista. Ossia da quanti hanno denunciato e ferocemente combattuto la presunta egemonia di un neoliberalismo

La sindrome del respiro corto per chi si affretta a giudicare Donald

Ci lamentiamo da anni della politica contemporanea perché non sa guardare lontano. Prigioniera di cicli elettorali sempre più sincopati, ossessionata da sondaggi quotidiani, incapace di prendere un minimo di distanza da cittadini volubili e irritabili, se va molto ma molto bene la politica riesce a darsi degli orizzonti annuali. Ma più spesso si limita a saltare di mese in mese, quando non di settimana in settimana. Come potrebbe mai prendersi cura dei problemi di ampio respiro e grande portata, allora, i cui ritmi sono decennali se non addirittura secolari: demografia, formazione, welfare, sviluppo, ambiente?

La sindrome del respiro corto si dice poi vale per tutta la politica, ma per quella populista di più. I populisti pretendono di esprimere la volontà del popolo in presa diretta, senza alcuna intermediazione. E poiché il popolo è, come detto, volubile e irritabile, poiché non ha gli strumenti per comprendere quali siano i propri interessi di lungo periodo, allora i partiti populisti non possono che essere ancora più demagogici, miopi, chiusi nell'immediato di quanto non lo siano gli altri. E poi fanno la guerra alle istituzioni tecnocratiche e neutrali, banche centrali in primis, che hanno proprio il compito di contrastare la miopia della politica rappresentativa con la propria presbiopia.

Tutto giusto. Ma poi spunta un presidente americano, quintessenza del populismo se mai ce n'è stata una, che imposta la propria politica commerciale sulla base di un obiettivo di lungo periodo: riportare negli Stati Uniti la produzione manifatturiera, così da rafforzarne il tessuto produttivo, il mercato del lavoro, l'autonomia strategica. E lo rivendica pure, di guardare lontano, da ultimo venerdì scorso su Nbc: è tollerabile che ci sia una recessione nell'immediato, nella fase di transizione ha detto , perché col tempo tutto si sistemerà. «We're going to do fantastically», staremo meravigliosamente. Sul versante opposto, quelli che hanno sempre attaccato il populismo per la sua miopia si compiacciono assai perché i dati economici americani dell'ultimo trimestre e la volatilità delle Borse stanno facendo naufragare il progetto trumpiano. Ossia, sperano che il brevissimo periodo prevalga su un disegno politico di prospettiva.

Ma è ovvio, mi si risponderà: certo che la politica deve tornare a guardare al lungo periodo, ma deve farlo come si deve. Mentre il disegno trumpiano è sì presbite, ma è pure sbagliato. Ed è bene che fallisca, allora. L'obiezione è fondata, e infatti qui non voglio difendere la politica commerciale di Trump. M'interessa solo mettere tre piccole pulci nell'orecchio di chi legge. La prima, che negli ultimi dieci anni ogni responsabilità per la crisi della politica è stata attribuita ai partiti populisti: derive demagogiche, semplificazione comunicativa, fake news e, appunto, miopia. Ma oggi il re dei populisti globali sta cercando, seppur malamente, di ripristinare la capacità della politica di controllare la storia. Ed è possibile, allora, che le cose siano un po' più complicate di come ci sono state presentate.

La seconda pulce ci racconta che, se i mercati dovessero infine sconfiggere Trump, ciò dimostrerebbe sì fragilità e improvvisazione della sua strategia commerciale, ma darebbe pure il segnale più generale che la politica resta subordinata all'economia. Non sarebbe l'unico segnale, per altro: un altro grande progetto politico dei nostri tempi che ambisce a guardare al futuro lontano, il Green Deal europeo, sta anch'esso affondando perché incompatibile coi vincoli del mercato.

È ben paradossale, allora, che il fallimento trumpiano sia invocato con particolare veemenza sul versante progressista. Ossia da quanti negli ultimi quarant'anni hanno denunciato e ferocemente combattuto la presunta egemonia di un neoliberalismo la cui colpa principale sarebbe indovinate un po'? proprio quella di subordinare la politica all'economia. Si misura qui l'immensa difficoltà della cultura progressista nell'affrontare la crisi contemporanea dei processi di globalizzazione, e si comprende per quale ragione la reazione populista a quella crisi sia emersa con molta più forza a destra che a sinistra. Se Trump fallisse, il godimento dei progressisti assumerebbe dei tratti autolesionistici, perché le loro prospettive strategiche ne uscirebbero ancora più limitate. «Be careful what you wish for», si dice in inglese: attento a ciò che desideri, potrebbe avverarsi.

La terza pulce chiosa quel che ci ha appena detto la seconda, e aggiunge che la sindrome del respiro corto non affligge soltanto la politica, ma pure il dibattito intellettuale. Che non solo nel nostro Paese e non solo a sinistra è ogni giorno che passa più miope e fazioso. E sì, certo, con le sue iniziative Trump agita per aria un dito grosso, pacchiano e vistoso.

È difficile non guardarlo e non parlarne. Ma resta pur sempre un dito, e quella che sta indicando le cause sottostanti del trumpismo è la luna di un profondo mutamento storico. Non sarebbe male dare un'occhiata pure a quella, ogni tanto.

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