
Perché mai gli esseri umani dovrebbero preferire vivere in una democrazia liberale piuttosto che sotto un regime autoritario? In un momento storico nel quale le democrazie appaiono in ritirata e gli autoritarismi in espansione, la domanda non è peregrina. Già a inizio Ottocento, ragionando di rivoluzioni, Vincenzo Cuoco proponeva una risposta, per così dire, utilitaristica. Al popolo, scriveva, non si può chiedere di desiderare la libertà per se stessa: «La libertà è un bene perché produce molti altri beni, quali sono la sicurezza, l'agiata sussistenza, la popolazione, la moderazione dei tributi, l'accrescimento dell'industria e tanti altri beni sensibili; ed il popolo, perché ama tali beni, viene poi ad amare la libertà».
Questa non è l'unica risposta possibile alla nostra domanda. Ma negli ultimi due secoli è stata quella di gran lunga dominante: storicamente, per legittimare se stesse, le democrazie liberali hanno utilizzato quasi sempre argomenti utilitaristici. Giovanni Giolitti, ad esempio, replicò il ragionamento di Cuoco quasi cent'anni dopo di lui, nel 1893: «L'indipendenza, la libertà, l'eguaglianza innanzi alla legge», disse in un discorso a Dronero, «non sono fini in se stessi, ma sono mezzi per conseguire un ordinamento sociale che assicuri il progresso intellettuale e morale e il benessere economico del maggior numero di cittadini». Ancora vari decenni più avanti, nel 1957, una risoluzione dell'Internazionale Liberale dichiarava la propria fiducia in una «società libera in cui l'uguaglianza delle opportunità favorisca lo sviluppo di quelle qualità di responsabilità e iniziativa individuale e quella prontezza a difendere la libertà contro ogni aggressione esterna o interna, che sono essenziali per il progresso politico, sociale ed economico».
Il punto debole di quest'approccio utilitaristico è ben evidente: ma se per qualsiasi ragione, come può capitare e nei fatti è capitato, la libertà manca di produrre progresso, come la si difende? E poiché gli esseri umani, creature storiche, si preoccupano del futuro, che si fa quando smettono di credere che la società libera garantirà loro un domani migliore, e cominciano invece a temere che ne abbia in serbo uno peggiore?
Ecco perché è così importante la crisi non soltanto materiale ma anche spirituale del ceto medio, la sua perdita di fiducia nell'avvenire, di cui ci parla l'ultimo rapporto del Censis: perché mette il dito nella più profonda e grave fra le piaghe della democrazia liberale. Nella seconda metà del Novecento l'espansione della borghesia ha rappresentato il segno più importante e tangibile del progresso sociale, ha portato con sé la garanzia di un futuro migliore per la stragrande maggioranza delle persone. E, così facendo, ha consolidato la democrazia liberale. Ma se questo meccanismo ora s'è inceppato, se in una società libera rischiamo di retrocedere, che cosa può mai fermarci dal traslocare nei pressi di Xi Jinping o Vladimir Putin?
La sofferenza per la mancanza di futuro il cronosofo belga Pascal Chabot l'ha chiamata «afuturalgia» ha varie cause. Alcune sono molto concrete: la fiducia nel progresso deve tanto all'aspettativa di sviluppo tecnologico e crescita economica, e in un momento nel quale da un lato la tecnologia appare a molti una minaccia più che un'opportunità, dall'altro ricchezza e redditi ristagnano quando non arretrano, il suo richiamo non può che affievolirsi. Ma ci sono pure cause meno tangibili. Postulando che domani si starà meglio di oggi così come oggi si sta meglio di ieri, l'idea di progresso costruisce un legame robusto fra passato, presente e futuro. In una civiltà iper-individualista con forti venature narcisistiche come la nostra, però, il tempo tende a frammentarsi e il presente a divorare sia il passato sia il futuro. Il passato appare allora come il semplice regno dell'oppressione illiberale, un mondo alieno che non va rispettato né compreso ma solo condannato e superato. Quanto al futuro, poiché è prodotto da individui totalmente liberi, nessuno può più prevederlo né tanto meno controllarlo. Per paradosso, così, il massimo sviluppo della libertà individuale ha indebolito l'idea di progresso che, per due secoli, ha rappresentato il principale strumento di legittimazione della libertà individuale. L'afuturalgia è uno dei tarli che rodono la democrazia liberale dall'interno, e non il minore.
Si comprende allora perché sia così profonda la crisi ideologica della sinistra: perché la forza storica di quelli che non per caso si autodefiniscono progressisti derivava dalla capacità di mobilitare le masse intorno alla bandiera del progresso spirituale e soprattutto materiale. Ma in tempi afuturalgici quella bandiera non garrisce più, e le masse non si sa più come mobilitarle.
E diviene poi possibile interpretare l'emergere di una nuova destra anche come risposta alla domanda pressante, da parte innanzitutto del ceto medio, che il tempo sia in qualche modo «ricucito», che il futuro sia riconnesso al presente e al passato, reso di nuovo intellegibile e riportato, per quanto possibile, sotto il controllo della politica. Un'operazione che, per quanto s'è detto finora, rappresenta per la democrazia liberale una minaccia ma, al contempo, pure una possibile via di salvezza.