
Giorgia Meloni ha già annunciato che l’Italia «è pronta a fare la sua parte, con l’ottimo rapporto che può vantare con tutti gli attori della regione. Anche sul tema della ricostruzione possiamo dire la nostra». E ieri le ha fatto eco il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, confermando che «saremo impegnati nella ricostruzione di Gaza grazie anche all’esperienza che hanno tante nostre imprese, purtroppo, in lavori in territori distrutti dai terremoti. Sappiamo bene come lavorare e mettiamo a disposizione di Gaza il nostro saper fare», ha aggiunto Tajani.
Secondo una stima della Banca Mondiale saranno necessari 53 miliardi di dollari per ricostruire Gaza e la Cisgiordania: 30 miliardi per riparare le infrastrutture fisiche e 19 miliardi per far fronte alle perdite economiche e sociali. Una cifra pari a tre volte il Pil della Palestina. Solo per il settore sanitario servono più di 7 miliardi di dollari. Un terzo della cifra totale andrebbe al settore più colpito, quello residenziale. La prima sfida sarà la rimozione di 53 milioni di tonnellate di macerie di cui una grossa parte contiene amianto.
Sappiamo già quali saranno i protagonisti della ricostruzione nel panorama industriale italiano. Ce lo dice Piazza Affari dove dall’annuncio dell’accordo sulla prima fase del cessate il fuoco sono scattati i titoli del cemento. Cementir anche ieri ha messo a segno un rialzo del 2,8% sfiorando 16 euro. Il gruppo controllata da Francesco Gaetano Caltagirone può contare su quattro cementifici in Turchia, che è il Paese con la maggior sovra-capacità produttiva e la migliore posizione per servire queste aree. Qualche tempo fa il ceo, Francesco Caltagirone junior, aveva dichiarato che la società ha un potenziale di crescita dei volumi in caso di un cessate il fuoco in Palestina, Siria o Ucraina. Buzzi, invece, ieri ha ceduto il 2,1% dopo lo sprint di giovedì (+5%): la società ha dismesso le attività ucraine e ha stabilimenti in Polonia e Repubblica Ceca già vicini alla piena capacità produttiva, mentre la Germania è probabilmente troppo lontana per servire in modo redditizio la ricostruzione».
In pista ci sono anche le grandi imprese di costruzione che già operano a livello internazionale come Webuild. Il governo italiano ha inoltre annunciato la volontà di espandere l’impegno verso “Italy for Gaza”, con focus in settori come acqua, rimozione macerie, bonifica da mine e ordigni inesplosi, energia elettrica, sanità, agricoltura. Ciò suggerisce che ci potrebbe essere spazio per partecipazioni di aziende specializzate. Mentre, purtroppo, è già tagliata fuori l’ex Ilva che avrebbe potuto giocare un ruolo di primo piano per la produzione dell’acciaio.
Sin qui l’aspetto economico e i risvolti borsistici. Ma c’è anche un tema politico da non sottovalutare.
L’Unione europea aspira a un ruolo nella ricostruzione, anche attraverso un gruppo di Paesi donatori.
Resta, però, da capire se questo ruolo verrà centralizzato da Bruxelles (con uno schema simile a quello usato per l’acquisto dei vaccini ai tempi del Covid) oppure se ciascun Paese deciderà e gestirà in autonomia il suo contributo.