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Meloni: Serbia in Ue, no incertezze su Kiev. Malumori su Salvini: "Solo propaganda"

Da Bruxelles Fdi contro Lega "amica di Afd" Il bilaterale a Belgrado su Stellantis e allargamento

Meloni: Serbia in Ue, no incertezze su Kiev. Malumori su Salvini: "Solo propaganda"
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Dall’aeroporto Nikola Tesla al Palazzo di Serbia, già sede del governo federale della Repubblica di Jugoslavia, non c’è lampione che non sia addobbato con bandiere italiane e serbe. Venti chilometri di accoglienza, accompagnati dalla Belgrade Tower che si riflette in un Danubio illuminata di bianco, rosso e verde. E, soprattutto, dal maxi-schermo pubblicitario davanti al palazzo presidenziale. Che tra la reclame di un ammorbidente e quella di un outlet di Novi Beograd alterna la scritta «benvenuta presidente Giorgia Meloni».

La premier arriva a Belgrado da Dubai, dove ha partecipato alla Cop28. E in Serbia la attendono soprattutto due dossier. Il primo, economico e industriale, riguarda Stellantis, la multinazionale italo-francese che ha inglobato la ex Fiat. Il processo di delocalizzazione, infatti, va avanti. E, con buona pace di Mirafiori, durante le dichiarazioni congiunte alla stampa, il presidente serbo Aleksandar Vucic annuncia che nel 2024 l’Italia «potrà diventare di nuovo il primo partner commerciale della Serbia» (oggi è il terzo) perché Stellantis avvierà «la produzione della nuova Panda elettrica nello stabilimento di Kragujevac» (non sarà prodotta solo in Serbia, ma pure in Marocco e Brasile). Anche se sulla fabbricazione della cosiddetta «Pandina» - la prima elettrica low cost del gruppo- peseranno sia le trattative in corso sugli incentivi tra Stellantis e Palazzo Chigi che quelle sulla normativa Euro7 che va avanti da mesi tra la multinazionale con sede ad Amsterdam e la Commissione Ue.

Il secondo dossier, centrale negli equilibri geopolitici europei, riguarda la collocazione della Serbia in Europa e il suo rapporto con Mosca. Belgrado è Paese candidato all’ingresso nell’Ue dal 2012 e ha avviato i negoziati di adesione nel 2014. Il percorso di integrazione, però, è in uno stato di impasse da tempo e dopo quasi dieci anni la Serbia ha aperto solo 22 capitoli negoziali su 35. D’altra parte - venti anni dopo l’ultimo tragico capitolo delle guerre jugoslave, culminato con l’intervento militare Nato contro Belgrado e la caduta di Slobodan Milosevic – Cina e Russia sono di casa a Belgrado. Con la Serbia che tende a perpetuare logiche di non allineamento concepite ai tempi della ex Jugoslavia.

Insomma, né con l’Ue, né con il Cremlino. Ed è questa la questione su cui si focalizza Meloni, che con Vucic ha un rapporto diretto, tanto che i due si scrivono via whatsapp. Non è un caso che la premier insista sul fatto che il leader serbo è persona «abituata a parlare chiaro come me» e, aggiunge, «è per questo che ci capiamo». Meloni, dunque, è a Belgrado per spingere Vucic ad affrancarsi dalle sirene russe, cinesi e turche. E il primo passo - questa la richiesta di Roma alla vigilia di un Consiglio Ue che a metà dicembre sarà incentrato sul Patto di stabilità ma tratterà anche il tema dell’allargamento - è «omologarsi all’Ue sul tema delle sanzioni a Mosca».

Un pressing che arriva mentre il vicepremier Matteo Salvini è in piazza a Firenze con l’internazionale iper-sovranista di Identità e democrazia, il gruppo dove a Bruxelles convivono il Carroccio, la destra francese del Rassemblement national di Marine Le Pen e l’ultra-destra di Alternative für Deutschland (che chiede un passo indietro d Kiev, perché «l’Ucraina va fermata»). Ed è da lì che arriva l’affondo contro Ursula von der Leyen e la possibile - praticamente scontata, dicono i numeri- futura riedizione della cosiddetta «maggioranza Ursula», con un nuovo accordo tra Popolari e Socialisti dopo il voto di giugno.

Salvini già lo definisce un «inciucio», Meloni preferisce tacere. Perché sa bene che un premier del G7 non può sottrarsi dal sostenere il futuro presidente della Commissione (ragion per cui nel 2019 il Pis votò per von der Leyen).

Se la premier sceglie la via del silenzio, fonti di Fdi di Bruxelles - che certamente si sono prima coordinate con Palazzo Chigi- replicano invece duramente: «Al netto della propaganda, Meloni ha portato von der Leyen a Lampedusa e firmato un piano d’azione con Olaf Scholz. Tutto il resto è campagna elettorale e siamo certi che la Lega conosca i limiti tra la propaganda e la necessità di non compromettere gli interessi italiani». E su Kiev, aggiungono le stesse fonti, «niente ambiguità».

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