Abbassare le tasse un beneficio per tutti

Se il taglio delle tasse si riducesse a un intervento simbolico, pochi punti percentuali su una platea tutto sommato ristretta, non potrebbe produrre un effetto significativo né sulle dinamiche di crescita né sul benessere collettivo

Abbassare le tasse un beneficio per tutti

Abbassare le tasse al ceto medio titolava ieri in prima pagina questo giornale, illustrando un progetto che il Governo intende mettere in campo in questa seconda e ultima parte della legislatura. Un obiettivo non solo economico, ma anche culturale, come ben evidenziava un'efficace pagina interna, che legava il tema fiscale a quello sociale: la centralità del ceto medio produttivo, da sempre marginalizzato intellettualmente dalle principali culture politiche del Paese, quella cattolica e quella comunista.

Eppure la storia economica insegna che quando la politica ha saputo dare fiducia al mercato e all'individuo, i risultati non sono mancati. Occorre però il coraggio di accettare fino in fondo ciò che questo comporta.

Se il taglio delle tasse si riducesse a un intervento simbolico, pochi punti percentuali su una platea tutto sommato ristretta, non potrebbe produrre un effetto significativo né sulle dinamiche di crescita né sul benessere collettivo.

Mi spiego. Fino ad oggi, quasi tutti i governi della Repubblica hanno cercato di dare segnali in questa direzione, ma l'assenza di vere riforme strutturali ha limitato la portata delle misure prese, rendendole moralmente encomiabili ma numericamente irrilevanti.

Per innescare un vero processo di mercato occorre avere il coraggio di cambiare la struttura della spesa pubblica.

Per diminuire in modo significativo il livello di tassazione, infatti, bisogna da un lato ridurre la spesa pubblica, dall'altro stimolare la crescita economica.

Ciò significa credere che le persone, con una quota più ampia di reddito lasciata nelle proprie mani, siano in grado di garantirsi meglio di quanto faccia lo Stato attraverso i suoi strumenti di welfare: assicurazioni sanitarie private, pensioni integrative, e altri istituti capaci di alleggerire il peso pubblico nei sistemi previdenziali e assistenziali oggi esistenti.

E significa anche privilegiare i fattori che, se lasciati liberi di agire, possono aumentare la ricchezza collettiva: capitale e lavoro. Sono i soldi che i privati hanno a disposizione per nuove iniziative d'impresa, e la qualità e produttività del lavoro che queste imprese impiegano, a far crescere il prodotto di un paese.

Basta guardare, anche solo superficialmente, le più note esperienze economiche in tal senso, forse le uniche davvero decisive nel dopoguerra: quella Thatcheriana in Gran Bretagna e quella Reaganiana negli Stati Uniti.

Le due dottrine, molto simili, tagliarono significativamente la pressione fiscale non di qualche decimale, ma di circa dieci punti percentuali partendo dalle tasse sul lavoro e sulla rendita dei capitali, il cosiddetto capital gain. Il tutto accompagnato da politiche di semplificazione e sburocratizzazione la cosiddetta deregulation che consentissero al mercato di muoversi il più liberamente possibile.

Queste riforme furono finanziate da una riduzione della spesa pubblica e dalla scommessa su una crescita robusta del prodotto interno lordo.

I risultati, in entrambi i casi, furono positivi: dopo un breve calo della ricchezza nazionale dovuto al taglio della spesa, il Pil tornò a crescere significativamente. E l'aumento della ricchezza non riguardò solo i ceti più abbienti: per ricaduta, quasi tutte le classi sociali ne beneficiarono. Un'economia che cresce, infatti, ha bisogno di forza lavoro e, quando la domanda supera l'offerta, ogni singolo lavoratore può strappare condizioni migliori.

Questo accade, per la verità, anche oggi nel mercato americano, che molti continuano a descrivere come meno protetto del nostro. Eppure, in molti Stati dove il tasso di disoccupazione è al 3% contro un tasso italiano, per esempio, dell'8% molte categorie di lavoratori hanno contratti più convenienti e livelli di welfare superiori a quelli di diversi Paesi europei.

Perché? Perché la concorrenza fa sì che i datori di lavoro si contendano i migliori collaboratori in un contesto di scarsità di forza lavoro rispetto alle esigenze delle imprese.

Tutto questo per dire che una significativa riforma fiscale non può prescindere da una riforma altrettanto importante delle regole, introducendo concetti come concorrenza, merito, rischio, premio di produttività.

L'unico Governo che, alle nostre latitudini, provò a fare di questi concetti la sua base politico-filosofica fu quello di Silvio Berlusconi nel 2001. Con alcuni risultati e molti limiti. Il principale, e più significativo, fu il freno culturale imposto da un sistema incapace di scambiare opportunità con garanzie: meglio meno per tutti che più per la maggioranza.

Un ragionamento errato, sia sul fronte della crescita sia su quello dell'equità, perché il benessere maggiore di una parte produce maggiori risorse anche per chi è rimasto indietro.

Dunque, bene ha fatto ieri Il Giornale a ricordare lo stretto nesso tra riforma fiscale e ceto medio produttivo.

Perché, come ci ricordano anche oggi gli scritti di un grande economista liberale, Milton Friedman:

«Una società che mette l'eguaglianza davanti alla libertà non avrà né l'una né l'altra. Una società che mette la libertà davanti all'eguaglianza avrà un buon livello di entrambe».

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