
"Pazi snajper" - "attenzione cecchino" - era scritto sulle lenzuola, lungo il viale di Sarajevo, durante l'assedio. Enormi teli bianchi penzolanti nelle vie laterali servivano a limitare la visuale dei franchi tiratori a caccia di militari o civili senza distinzione. Nel quartiere serbo di Grbavcia oltre il fiume, che taglia in due la capitale bosniaca, si annidavano i cecchini. Oppure con armi più pesanti sparavano dalle colline che dominano Sarajevo. Le voci dei "safari tour" di danarosi stranieri, che pure dall'Italia venivano a fare il tiro al piccione con gli assediati, circolavano come una leggenda. L'inchiesta aperta dalla procura di Milano, grazie all'instancabile lavoro d'inchiesta dello scrittore e regista Ezio Gavazzeni, potrebbe fare luce sull'orrore dei "safari tour", anche se dopo 30 anni sarà dura.
Volontari russi, un americano di origine serbe arrivato da New York, greci spinti dalla comune fede ortodossa, hanno combattuto al fianco dei serbi e sparato su Sarajevo. Italiani forse c'erano e Gavazzeni ne avrebbe individuato uno, ma durante la guerra si guardavano bene dal farsi beccare dai giornalisti. A differenza dei russi, che servivano come minaccia propagandistica. "Un cittadino americano, serbo di origine, era arrivato apposta da New York per sparare alle persone a Sarajevo, ai bambini, alle persone vere" racconta il fotografo, Mario Boccia, in una toccante video testimonianze "The Story Behind The Photo". Una serie in rete realizzata da un sopravvissuto all'assedio, che ha perso il fratello ucciso dai cecchini. L'americano raccontava al fotografo italiano, che "era figlio dei cetnici andati via dopo la seconda guerra mondiale e rifugiati in America" per salvarsi dalle esecuzioni e infoibamenti di Tito. A Grbavica, alla periferia di Sarajevo, si faceva fotografare un greco arruolato dai serbi. "È vero che alcuni russi combattono al nostro fianco, ma come volontari e non mercenari, con gradi e regole dei nostri reparti. E se la Nato decidesse follemente di intervenire in Bosnia ne arriverebbero degli altri, magari in compagnia di italiani e inglesi, per darci una mano". Parole del generale Milan Gvero, vice-comandante dell'assedio di Sarajevo, che avevo incontrato nel dicembre del 1992. La Nato intervenne e i "volontari" russi, qualche dozzina, non cambiarono le sorti del conflitto. Gvero è morto dopo essere stato condannato a soli cinque anni dal Tribunale internazionale per crimini di guerra nell'ex Jugoslavia. Italiani e inglesi non li ho mai visti a Sarajevo, ma un pugno di connazionali aveva aderito alla "brigata Garibaldi", un'unità formata dal capitano Dragan, ex legionario serbo, nell'entroterra dalmata.
"Constantin, Vladimir, Alexander, Fiodor..." erano i nomi dei volontari russi nelle file dei serbo bosniaci del generale Ratko Mladic. Per raggiungerli bisognava percorrere 600 chilometri di tragitto tortuoso e a tratti pericoloso fino a Trebinje, davanti a Ragusa (Dubrovnik), sotto attacco. Due fratelli russi appena arruolati venivano da San Pietroburgo. Serghiej e Alexander erano caduti nei primi tre mesi di guerra. Il comandante, che chiamavano "tenente" era un ex ufficiale della flotta sovietica del Baltico.
"I reduci dell'Afghanistan vogliono tornare in prima linea proprio in Bosnia per continuare la guerra contro i mujaheddin che per loro non si è mai conclusa" spiegava il tenente. Al fianco dei musulmani combattevano i volontari della guerra santa, anche afghani, di stanza a Zenica. I russi raccontavano di essere arrivati via Belgrado con "normale" visto turistico.