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"Una vita al vertice delle istituzioni”. La carriera di Andrea Manzella

Da Aldo Moro a Ciriaco De Mita, Spadolini e Ciampi, quella di Manzella è una vita vissuta al vertice delle istituzioni italiane

"Una vita al vertice delle istituzioni”. La carriera di Andrea Manzella

Andrea Manzella, all’età di quasi 90 anni, splendidamente portati, ricorda con straordinaria lucidità e simpatia gli anni di una carriera che lo ha visto protagonista nel ruolo di “grand commis” di Stato. Dagli esordi come consigliere di prefettura a Benevento a consigliere parlamentare della Camera dei deputati dal 1961 al 1980. Poi consigliere di Stato, segretario della presidenza del Consiglio con Spadolini, De Mita e Ciampi. Dall’83 all’87 è stato consigliere giuridico del ministro del ministro della Difesa, ancora con Spadolini. È stato anche parlamentare dell’Ulivo a Bruxelles e al Senato. Nel suo studio di professore nel centro di Roma, immersi tra libri, giornali e documenti, si possono notare le foto di Spadolini, Cossiga, Napolitano, Ciampi, Pertini e Mattarella con personali dediche. Attualmente è presidente del Centro di studi sul Parlamento della Luiss.

Professor Manzella, la sua vita è stata profondamente legata alle istituzioni di questo paese, di cui è stato costante servitore.

“Sì, ho vissuto le istituzioni in molte articolazioni. Sono stato prima consigliere di prefettura a Benevento (ricordo ancora i bravi sindaci della Val Fortore). Poi superai il concorso in magistratura e sono stato pretore a Pordenone: un’esperienza che mi fece capire l’Italia del miracolo economico. Pordenone era allora una capitale del successo italiano: giorno per giorno nascevano e crescevano imprese. E poi c’era l’ammirevole genio produttivo e creativo dei friulani. Dovevo però trasferirmi a Roma, per ragioni mie, e vinsi un concorso come consigliere alla Camera dei deputati. La lasciai, dopo quasi vent’anni, come direttore del servizio studi. Nominato consigliere di Stato, su proposta di Nino Andreatta, cominciò la mia esperienza a diretto contatto con la politica di vertice”.

Nel suo percorso di studio ha avuto la possibilità di incontrare Aldo Moro.

“Ho fatto il primo anno di università a Bari, dove Moro insegnava Filosofia del diritto, per poi completare il percorso di studi a Napoli. Moro nelle sue lezioni in classe aveva l’abitudine di fare una specie di appello mnemonico, quasi a stabilire un contatto fisico con gli alunni. Poi quando stavo per andarmene da Bari a Napoli, ci incontrammo casualmente e lui mi disse: 'Ho saputo che lei si trasferisce, faccia attenzione a non perdersi in quella bolgia di Napoli'. Aveva ragione: ebbi un periodo di molte difficoltà…”.

Moro diceva sull’Italia: “È un paese dalla passionalità intensa ma dalle strutture fragili”. Condivide questa frase?

“Assolutamente. Lui aveva l’idea precisa di una Italia repubblicana in cui la passionalità politica si è potuta incanalare per molto tempo nella struttura forte delle ideologie politiche: popolar-cattolica, comunista. Queste si traducevano in partiti-apparato con sezioni diffuse in tutto il territorio: erano il sostegno “materiale” della nostra democrazia. Ma ci fu sempre la criticità di una fragile struttura istituzionale, una dannosa eredità che ci portiamo dietro storicamente: forse anche per il modo straordinario con cui si era arrivati allo Stato unitario. Per molto tempo si governò con il meccanismo dei prefetti, senza che si realizzasse l’idea di una dorsale statale solida, comune, condivisa. L’avventura della grande guerra fu determinata anche da questo. Il tentativo di cementare quelle strutture precarie con l’iniezione di una unificante idea nazionale di integrazione territoriale (Trento e Trieste) che accomunava milioni di italiani-soldati, dal sud al nord del paese. Senonché proprio dai reparti di “arditi” che non vedevano realizzata in quel dopoguerra italiano la forte idea di Nazione per cui avevano combattuto, vennero i primi germi della lunga vicenda fascista”.

Dal centro-sinistra al compromesso storico. Aldo Moro è la figura centrale di queste due grandi svolte politiche italiane. Come furono vissute all’interno del palazzo?

“Il compromesso storico fu un nuovo tentativo di realizzare quell’unità nazionale: ed ebbe un luogo privilegiato nelle aule parlamentari. Ma non nell’aula dell’assemblea, bensì in quelle delle commissioni dove si intrecciavano e compensavano le proposte legislative dei grandi partiti. Un momento centrale di questa fase fu nel varo di nuovi regolamenti parlamentari, nel 1971. Ne fu protagonista Sandro Pertini alla Camera (seguì una rincorsa di Amintore Fanfani al Senato). L’indice più chiaro fu l’introduzione del criterio della programmazione parlamentare che poteva attuarsi solo nella necessaria intesa fra i gruppi maggiori. Prima del 1971 ogni sera si decideva l’ordine del giorno della seduta successiva… Lo capirono subito i “gruppuscoli”: prima la frazione del Manifesto che denunciò l’accordo “gruppocratico a scapito della vera opposizione”, poi i radicali di Pannella. Ecco: al centro del compromesso storico non ci furono accordi tra i partiti, ma accordi parlamentari sulla sostanza delle cose”.

Ugo La Malfa, a cui Lei è stato vicino, negli anni ‘70 mancò l’elezione a presidente della Repubblica e a presidente del Consiglio. Nel primo caso venne eletto Pertini e nel secondo Andreotti. Cosa successe?

“L’elezione del presidente della Repubblica italiana è stata sempre 'un mistero avvolto in un enigma' avrebbe detto Churchill. In quella delicatissima vicenda c’è sempre qualcosa che sfugge. Qualcosa che è sempre diverso da elezione ad elezione. Più chiara fu invece la vicenda che vide La Malfa protagonista del famoso “tentativo” di formare un governo. Determinante in quell’insuccesso una certa mancanza di visione dei comunisti. La Malfa aveva proposto un direttorio dei segretari di partito, in cui ci sarebbe stato anche Berlinguer, da affiancare al governo: che però non avrebbe avuto ministri comunisti. In fondo, sarebbe stata l’istituzionalizzazione - però con una estensione, davvero storica, al Pci - della corrente prassi dei “vertici” dei segretari dei partiti della coalizione di governo. Enrico Berlinguer non accettò questa soluzione, fermo sulla pregiudiziale di una effettiva presenza comunista nel governo. La Malfa era già consapevole che i democristiani non l’avrebbero mai accettato, in quel momento. Rinunciò, perciò, per questi veti incrociati. Nacque così il governo Andreotti”.

Roberto Gervaso diceva su Ugo La Malfa: “È perentorio, dogmatico, esclusivo. Le ragioni dell’avversario non sono mai buone… Questa Italia non gli piace e si vede”.

“Sì, lui era molto critico dell’Italia ma anche severo con se stesso. Però era pure quello che aveva il miglior “telefono abilitato”. Poteva parlare, autorevolmente, con tutti: dal prefetto di Forlì, al governatore della Banca d’Italia, ai segretari di tutti i partiti. Alzava il telefono e parlava con l’Italia. Da questo punto di vista, sarà stato critico, però era anche attentissimo ad avere un circuito relazionale completo con tutti, senza nessuna esclusione, per capire le ragioni di tutti. Era insomma un “antiitaliano” inclusivo, cioè sapeva cos’era l’Italia, le profonde connessioni reali e aveva grande capacità nel giudicare l’autenticità del valore degli uomini”.

Spadolini invece com’era?

“Spadolini era molto “spadoliniano”: nel senso che era davvero come la vulgata giornalistica lo raccontava (primo fra tutti il suo grande amico Montanelli). Dal punto di vista umano, accanto alla famosa – e giustificata - consapevolezza di se stesso - aveva il culto delle grandi, perduranti amicizie e una acutissima capacità di introspezione delle persone. Severissimo nella ricerca della perfezione, era spesso irascibile con gli intimi, con scatti di cui si pentiva rapidamente: in contrasto con la sua aria bonaria, da saggio tranquillo… Da grande storico, era straordinario nell’arte di arrivare subito al vero fondo delle cose e di rendere le cose complesse in maniera semplice”.

In che modo la nomina di Spadolini a presidente del Consiglio cambiò la politica dei primi anni ’80?

“Si verificheranno tre fatti di rilievo costituzionale. In primo luogo, con la nomina di un leader di estrema minoranza, venne capovolta la gerarchia dei partiti, fino allora intoccabile. Ci fu, poi, l’istituzionalizzazione, per allora solo in via amministrativa, dell’apparato della presidenza del Consiglio, come primo strumento operativo del premier. E infine cominciò una comunicazione politica diretta fra il “presidente del governo” e i cittadini. Lui fu il primo dei grandi comunicatori da Palazzo Chigi (e ricordo ancora le accuse di “cancellierato”…). Non gli fu dato però il tempo di affrontare radicalmente l’eterna “questione istituzionale”: di cui aveva però individuato alcuni più urgenti elementi in un Decalogo alla base del suo secondo, breve governo”.

I rapporti tra Spadolini e La Malfa?

“Molto buoni nel reciproco riserbo, come li ricordo. Era stato Ugo La Malfa, del resto, che aveva avuto la geniale intuizione di fare entrare Spadolini nella grande politica: offrendogli la candidatura nel prestigioso collegio senatoriale di Milano dopo la brusca estromissione dalla direzione del Corriere della Sera”.

Con l’ascesa di Craxi a Palazzo Chigi, Spadolini venne nominato ministro della Difesa. Tra le varie vicende ci fu il caso di Sigonella. Lei a quel tempo era consigliere giuridico del ministro repubblicano.

“La crisi di Sigonella si articola in due fasi. La prima fu la decisa affermazione della sovranità nazionale - con i carabinieri in armi che circondano nella base i militari americani - nella competenza a processare i terroristi (per crimini compiuti su una nave italiana) richiusi nell’aereo egiziano dirottato dai caccia USA. In questa fase, Spadolini è assolutamente concorde con Craxi. La seconda fase vide invece il ministro repubblicano schierarsi contro il presidente del Consiglio quando venne a conoscenza che si era di fatto permessa, sia pure in confuse e affannose circostanze, la fuga del terrorista Abu Abbas dal territorio e quindi dalla giurisdizione nazionale”.

Dall’88 all’89 Lei affiancò invece un altro presidente del Consiglio, Ciriaco De Mita.

“A De Mita vanno riconosciuti almeno tre meriti di grande importanza. In politica interna, ponendo una specie di “questione di fiducia implicita” - minacciando dunque una crisi di governo di esiti dirompenti, in perfetta sintonia con il segretario socialista - riuscì a ottenere che le due Camere (a scrutinio segreto!) abolissero il voto segreto (salvo i casi personali). La vergogna dei “franchi tiratori” che rendevano ancora più fragile la endemica precarietà dei nostri governi fu per gran parte eliminata. Con la legge n. 400 del 1988, riuscì (dopo 40 anni) ad attuare l’art.95 della Costituzione che prevedeva una organizzazione specifica della presidenza del Consiglio, completando così il percorso amministrativo spadoliniano. In politica estera dette grande fiducia a Gorbaciov con la famosa riunione di ministri a Mosca: comprendendo così che era quello un momento irripetibile per una vocazione europea della Russia. Ma credo che ci sia un dato interessante su De Mita, poco o mai sottolineato. Lui capì che c’era un’Italia che doveva essere assemblata in maniera diversa: andando oltre la Dc, in un partito liberal-democratico di massa. Una intuizione che anni dopo doveva essere corroborata dai grandi successi elettorali realizzati, in modi certo assai diversi, da Silvio Berlusconi”.

Però De Mita non vi riuscì…

“No, in quanto gli vennero “tagliate le gambe”. Anche se lui fece l’errore, forse inevitabile a quel fine, di tenere insieme la segreteria del partito e la presidenza del Consiglio”.

Era un politico cinico come lo descrivono?

“Quando ricordo la sua commozione alla notizia dell’assassinio di Roberto Ruffilli, il “suo” uomo delle istituzioni, i suoi gesti di affettuosa familiarietà con gente “comune” e anche la sua ansia di “vedere” ogni cosa dal lato umano, “esperienziale” - come diceva - non ritrovo alcun segno di cinismo. Il suo servizio come sindaco di Nusco, sino alla fine, spiega anche il risvolto “buono” di certi tratti duri di una certa tradizione di gestione del potere locale”.

Con quali altri presidenti del Consiglio ha avuto modo di collaborare?

“Carlo Azeglio Ciampi fu l’ultimo: e il suo destino finale come Capo dello Stato era in un certo senso chiaro. Mi colpirono molto, quando lo vidi da vicino al lavoro, la sua grinta decisionista e la sua risolutezza nel richiamo costante ad una sua bussola di patriottismo “euro-nazionale”. Nel lavoro aveva l’abitudine di non finire la giornata se non quando la sua scrivania fosse sgombra da ogni dossier. Quando, poi, anni dopo, si ebbe di nuovo bisogno di lui come ministro per il nostro difficile ingresso nell’euro, Ciampi giocò senza remore il suo prestigio e la sua serietà internazionali. Raccontava che capì che si apriva qualche possibilità nel muro dei “no” all’Italia quando, in un suo colloquio confidenziale con il governatore della Bundesbank Tietmeyer, questi, pur escludendo ogni apertura, gli chiese a bruciapelo: 'Ma nel caso che noi decidessimo di accettare l’Italia nell’euro, tu nel direttorio della Banca centrale europea chi manderesti?'. Ciampi rispose pronto: “Tommaso Padoa Schioppa”, un nome che nessuno in Europa poteva rifiutare…”

Nel corso della sua lunga carriera istituzionale con quali politici ha avuto un rapporto particolarmente stretto?

“Nino Andreatta, Spadolini, De Mita, Ciampi e con il grande intellettuale comunista Alfredo Reichlin”.

Giulio Andreotti?

“Assai meno. Quando lo conobbi da vicino, Andreotti mi apparve come lo si è sempre raffigurato: molto “romano” nella sua abitudine a minimizzare, a sdrammatizzare tutto. Una volta gli chiesi come aveva vissuto i giorni fondativi della comunità europea. Rispose: 'Vedevo De Gasperi, Adenauer e Schuman che si mettevano in un angolo e cominciavano a parlare in tedesco. Sai, io non conosco il tedesco, però capivo tutto'. Un’altra volta raccontò di aver riconosciuto il grande filosofo cattolico francese Jacques Maritain in un passeggero vociante con i camerieri nel vagone-ristorante del treno Genova-Roma per una banale questione di priorità nel servizio… Ecco in questa “maniera” c’era tutto il popolarismo di Andreotti che ho conosciuto. Poi, per altri lati, il personaggio è, come si dice, affidato al giudizio storico”.

A Roma si dice che Lei e Gianni Letta siate uomini “influenti”.

“Io davvero non lo sono mai stato.

Gianni Letta è un vecchio e caro amico: mi rivolgerei a lui, nel caso… Nelle mie esperienze istituzionali ho sempre e solo cercato di migliorare, per quel che potevo, il meccanismo che mi era affidato, di guardare un po’ più in là della semplice ripetizione burocratica dei “precedenti”, di rimediare, nel mio assai modesto margine d’azione, a qualcuna di quelle istituzionali “fragilità” di cui, una volta per sempre, aveva parlato Moro”.

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