L'arresto di Messina Denaro

Applausi e omertà, Palermo a due facce

La città esulta per la liberazione dal boss. Ma è la stessa che l'ha sempre protetto

Applausi e omertà, Palermo a due facce

Palermo è un Giano bifronte che sorride. Da entrambi i lati. Il primo è sorriso di gioia, di liberazione, di rifusione. Il secondo è sarcastico, agro e beffardo. Sono le due facce di una città il cui tempo si ripete. Ciclicamente. Le due facce di una terra eternamente spaccata da un confine talmente labile da risultare a volte invisibile. Gli applausi dei cittadini che hanno assistito all'arresto del boss Matteo Messina Denaro sono scroscianti e commuovono l'anima. Rendono giustizia alle famiglie delle vittime della mafia, ai servitori dello Stato che non ci sono più e a quelli che lottano ancora giorno per giorno contro un cancro immarcescibile, alle persone oneste, a quelle che si ribellano e che non si girano dall'altra parte. Ma c'è qualcosa che fa più rumore. Ancora una volta.

È il silenzio della connivenza, la cui eco emerge dirompente a ogni arresto. Prima Riina, poi Provenzano, ora Messina Denaro. La rete di copertura ogni volta offre rifugio. E non è fatta soltanto di affiliati a Cosa Nostra. Ma comprende parte della società civile che preferisce abbassare lo sguardo e stare zitta nel nome di un parossistico quanto atavico quieto vivere. Se per un anno Diabolik si è recato chissà quante volte in una clinica privata in pieno centro a Palermo vuol dire che si sentiva tranquillo. Ed era tranquillo perché la convinzione che quella rete di copertura non subisse alcuno strappo lo rassicurava. Dai medici che lo avevano in cura, e a cui pare regalasse olio, agli infermieri passando per le persone che lo hanno visto o che sapevano dove fosse in questi trent'anni di latitanza per arrivare a chi gli ha offerto alloggio e protezione. La stessa protezione offerta dai mafiosi. Con l'unica differenza che una è dettata dalla paura, l'altra dalla parvenza di coprire un buco e di assolvere a un compito abdicato dallo Stato.

Basta vedere alcuni servizi televisivi andati in onda negli ultimi anni per avere un'idea. Soprattutto a Castelvetrano, nel Trapanese, città che ha dato i natali al boss, al giornalista di turno che pronunciava il cognome Messina Denaro rimbombava un assordante silenzio. La gente preferiva non rispondere, scappare, evitare di commentare. Anche la gente con la fedina penale pulita e animata da rettitudine. È quello il vero fallimento su cui interrogarsi. Perché una persona perbene preferisce non invischiarsi in argomenti del genere? Perché li considera pericolosi? È indubbio che parte della risposta risieda nell'insicurezza, nella paura di subire angherie e nell'incapacità dello Stato di colmarle.

Eppure di passi avanti ne sono stati fatti, eccome. Sono sempre più i cittadini che denunciano il pizzo e sempre meno le ancore a cui la criminalità organizzata trova appigli. Ma la denuncia è considerata ancora un atto coraggioso, quasi al limite dell'incoscienza. C'è uno strato di subcultura, inconscio ma consolidato, che porta a trasformare i diritti in favori da chiedere e i doveri in incombenze pericolose. Camurrie, insomma. Eppure è in questa logica che ancora si annida e ha origine quello che Paolo Borsellino definiva «il puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della contiguità e quindi della complicità» e che impedisce di «sentire la bellezza del fresco profumo della libertà». Finché ci sarà anche un briciolo di consenso, il Giano bifronte continuerà a esistere. E a sorridere.

Da entrambi i lati.

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