F orse quel cerchietto con le orecchie da gatto lo indossava anche lei, Georgina, la prima vittima riconosciuta a Manchester. Lo avevano in tantissimi, l'altra sera alla Arena, perché è il passaporto per entrare nel favoloso mondo di Ariana Grande, una delle popstar vietate ai genitori, icona globale del mondo che sta al di sotto della maggiore età. Strafamosa tra i ragazzini (tutti, anche tra chi lo nega) e semisconosciuta tra tutti gli altri nonostante il settimanale Time l'abbia inserita tra i 100 personaggi più influenti del mondo e, solo in Italia, l'anno scorso lei sia stata l'artista femminile con più streaming di tutte, Lady Gaga o Katy Perry comprese. Anche ieri, per strada o al bar qui in Italia, molti si chiedevano chi fosse la cantante che aveva riempito una delle arene più grandi d'Europa e che poi, dopo il botto e il sangue, aveva twittato «Sono distrutta, mi dispiace dal profondo del cuore, non ho parole» ricevendo un milione di retwitt dai suoi 45 milioni di follower, meno della metà di chi la segue su Instagram (oltre 106 milioni).
Già, chi è? È una quasi ventiquattrenne nata a Roca Baton in Florida dal grafico Edward Buter e da Joan di origini siculoabruzzesi che a otto anni ha debuttato come protagonista a teatro e poi si è fatta conoscere recitando lo stesso ruolo di Cat Valentine in due sitcom di Nickelodeon, Victorious e Sam & Cat. Non aveva neanche diciott'anni ed era già abbastanza famosa. Per diventare molto famosa ha atteso la pubblicazione del primo disco Yours truly nel 2013 (prima emergente femmina a debuttare al primo posto negli States, quindicesima donna in totale) e il successivo My everything del 2014, altro successo da urlo, con nove milioni di copie vendute solo del primo singolo Problem. La nuova popstar era pressoché sconosciuta all'intera popolazione planetaria priva di figli o nipoti, e forse anche per questo nel 2015 ha duettato in E più ti penso con Andrea Bocelli in un (buon) italiano e con Stevie Wonder nella favolosa Faith dal film d'animazione Sing dello scorso anno (ha duettato anche con Mika e registrato un brano con Fedez, One last time). Un tentativo di accreditarsi presso un pubblico più adulto che, comunque, avrebbe già potuto apprezzare i suoi show kolossal con ballerini, buoni musicisti, abiti non sexy ma comunque molto generosi alla vista e un repertorio comunque ancorato all'r&b che discende da Whitney Houston e Mariah Carey. Alla prima l'avvicina una gran bella voce da quattro ottave e due semitoni. Alla seconda per fortuna quasi nulla se non qualche volatile inciampo nel kitsch. Invece con altre coetanee superstar come Taylor Swift o Miley Cyrus condivide un po' di pubblico ma nessuna vocazione allo scandaletto o alla provocazione sessuale. Anzi, anche nei testi e nei video delle proprie canzoni Ariana Grande si mantiene lontana a sufficienza da pastrocchi erotici o da allusioni maliziose.
Di certo, però, ha le idee chiare.
Seguendo i consigli del proprio staff, si è espressa contro Trump, come tutto l'establishment pop, e poco prima di pubblicare l'ultimo disco Dangerous woman, ha licenziato il suo manager Scooter Braun, un piccolo re Mida con le divette adolescenziali. Insomma, non è un burattino nelle mani di squali affamati di soldi. Decide, eccome. Si presenta ai fan esattamente per come è, scelta che, nell'epoca della finzione esasperata, è un valore aggiunto. E non è un caso che sia riuscita in così poco tempo a creare un linguaggio decifrabile solo dal proprio pubblico. Merito di un talento indiscutibile. E anche di una grande capacità empatica. Per capirci, il cerchietto con le orecchie da gatto (o coniglio o anche renna per gli auguri di Natale), che ieri è diventato il simbolo del dolore per Manchester, fa parte del «pacchetto comunicativo» obbligatorio per le giovanissime popstar, capace di creare un gruppo che sui cinque continenti parla la stessa lingua ma si distingue dagli altri anche nella scelta del nome.
Quindi, come i fan di Justin Bieber si chiamano beliebers e quelli dei One Direction sono
directioners, chi segue Ariana Grande è un arianator. È uno slang che identifica una gran parte del pubblico più fragile e prezioso, i nostri figli. Quelli cui assassini pazzi ora hanno deciso di far pagare il prezzo più schifoso.
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