Milano dirty dancing

Il ballo come riscatto e la "guerra" tra gruppi rivali. L'altra città che si muove al ritmo di K-pop

Milano dirty dancing

Passa, li guarda e scuote la testa fresca di messa in piega di un grigio così puro che pare l'abbiano frizionata con l'Argentil. Nel sacchetto dell'Esselunga ha la spesa per una persona sola e in cima alla scala mobile il sole le punge gli occhi ma sono tutti quei «ragazzetti» che si muovono all'unisono ad affaticarle la vista. Non che non ci abbia fatto l'abitudine: si «condensano» lì mattino, pomeriggio e sera. Per tacere dei week end, quando addirittura si moltiplicano. Ma prima di ogni altra cosa, la signora che passa con la monoporzione di vellutata di verdure nella busta, non capirà mai perché «questi giovani» si vestano a quel modo: le «braghe troppo larghe», le felpe informi o i top chiassosamente colorati ed eccessivamente striminziti. E quel modo di ballare... tutto quell'atterrare sulle gambe e ammiccare e sventolare le braccia verso chissà chi e chissà perché. Ri-scuote la testa e tira dritto.

Tutto intorno, in piazza Gae Aulenti e nel suo interrato Porta Nuova Food District, il resto del mondo si muove a ritmo «burocratico», le signore dirette al supermercato o al caffè con le amiche o a sfogliare libri alla Feltrinelli, le baby sitter che spingono i passeggini parlando al cellulare, i giovani impiegati delle banche, in completo blu, che fanno la pausa dai monitor «svapando» e confidandosi con le colleghe sotto all'anomalo sole d'ottobre: «No, vabbè, se non è la persona giusta per te tronca subito e ciao». A New York cambi marciapiede e cambi mondo, qui si concentra tutto in un tratto nato per il passaggio veloce che invece diventa una galleria di storie a ritmo di K-pop e non solo. Da via Galileo Galilei, attaccati al grattacielo di Bnp Paribas iniziano i filippini: ragazzi e ragazze guidati da un intransigente adulto improvvisato coreografo che li prepara al ballo delle debuttanti, quello delle «18 rose». Ha regole precisissime che contemplano il valzer, la galanteria, la tradizione e, ovviamente, il fiore rosso a stelo lungo. Perciò si sono ritagliati questo spazio di percorso senza contendenti in cui la gente «tira dritto in fretta» per andare altrove. Bisogna salire le scale, passare davanti ai barbieri hipster, a un'altra manciata di ristoranti esotici (e a quello stellato di Andrea Berton), attraversare il ponticello sospeso su viale Melchiorre Gioia, lasciarsi alla destra quel seme di fantasia appoggiato sulla piazza che è l'Unicredit Pavilion di Michele De Lucchi per trovare chi balla proprio per il gusto di ballare e in qualche caso per darsi un senso. Piazzati davanti ai maxi specchi che la Nike ha montato proprio per loro («lo hanno fatto perché prima ci riflettevamo nelle loro vetrine») provano coreografie coreane scaricate da Youtube. Sono di una bravura ipnotica ma i passanti si vergognano come fossero voyeur all'idea di fermarsi e godersi l'inatteso spettacolo. Perciò sbirciano, si concedono un decimo di ciò che vorrebbero osservare e proseguono come la signora con la chioma d'argento. Il gruppo che si ritrova qui ha tra i quindici e i venticinque anni, si allena ogni giorno per ore forte del fatto che «è una cosa sana, non costa nulla e fa trovare un sacco di amici. Io ero timidissimo, ballare davanti a tutti mi ha fatto un gran bene»: lui ha 17 anni, leggeri tumulti lungo l'accenno di baffi e timido ci sembra ancora.

«Servono molto spazio e degli specchi grandi. Affittare una sala costerebbe attorno ai cento euro al giorno, è vero che siam in tanti, ma sono anche tanti soldi. Così abbiamo solo il costo dei mezzi per venire qui, adesso scusi ma devo andare, mia mamma mi aspetta» sorride e si allontana, è minutissima, riccia e originaria del Brasile. Abitano tutti altrove, a qualche autobus o a diverse fermate di metropolitana di distanza. Vivono e studiano là, ma è qui che vogliono venire: è difficile, alla loro età, non essere di casa da nessuna parte. Qualcuno frequenta il liceo, qualcun altro il Politecnico, qualcuno spera in un lavoro part time per poter ballare, tutti sognano di andare in Corea del Sud ad incontrare gli idoli nel cellulare. È su musiche e coreografie coreane che ballano e il fenomeno è così imperante che anche il governo del Paese se ne occupa in prima persona (a livello mondiale vale 7 miliardi di dollari) e l'Istituto Culturale Coreano organizza contest con premi in palio.

Nct, Ikon, Monsta X, Le Sserafim... Replicano i look griffati dei loro eroi setacciando le bancarelle del mercato o i siti cinesi di abbigliamento, si truccano a vicenda, si imprestano le cose. Un altro mondo rispetto a quelli che arrivano qui il sabato e la domenica: quelli ballano lo sturdy su musiche drill, attaccano briga, sgraffignano, si vestono con tute in acetato, magliette contraffatte del Manchester United, del Paris Saint Germain o del Milan, impestano i portici con odore di «canne», fanno dannare i vigilanti dei negozi e finiscono col richiamare la polizia. Dirty dancing.

Sono quelli con più vitalità che vita. Hanno il disturbo come metodo, lo sfascio come rabbia e nessuna direzione. Campare per rovinare, pure il sogno degli altri: «Per cacciare loro, mandano via anche noi» spiega uno sulla parte «buona» del marciapiede.

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