Nella Russia di Putin hanno idee chiarissime su come devono lavorare i giornalisti: dare sempre ragione al Capo e sempre torto all'Occidente. Chi si adegua continua a lavorare, mentre chi tiene la schiena dritta si ritrova addosso l'etichetta di «agente straniero» e deve filare in esilio: è il caso delle intere redazioni di due testate indipendenti come «Moscow Times» e «Novaya Gazeta», il cui direttore Dmitry Muratov era stato insignito del Nobel per la Pace. Simili idee valgono anche per i giornalisti americani: Evan Gershkovich, ad esempio, è in galera in Russia da quasi un anno sotto l'accusa inventata di spionaggio (verrà comodo per futuri scambi con qualche vera spia russa detenuta in Occidente) e anche Alsu Khurmasheva non se la passa meglio. Tucker Carlson, invece, gode di grande rispetto, tanto che ieri ha potuto annunciare di aver realizzato uno scoop: un'intervista a Vladimir Putin, addirittura.
È dunque utile capire chi sia questo Carlson e perché proprio a lui sia toccato tale privilegio. Questo giornalista è un trumpiano talmente fanatico da aver costretto a suo tempo Fox News la televisione nata per essere il contraltare di destra della Cnn in America e nel mondo a cacciarlo: l'ottusità del suo estremismo danneggiava la stessa causa che voleva servire. Naturalmente Donald Trump continua a stimarlo (anche lui ha una «certa idea» del giornalismo), e a maggior ragione Putin, che è alla ricerca di una via per influenzare le prossime presidenziali Usa: Trump ha già fatto capire che se vincerà obbligherà Zelensky a subire condizioni di pace gradite a Mosca. Carlson è, a questo scopo, perfetto: condivide in pieno la linea (pressoché coincidente) di entrambi e ripete volentieri tutti i luoghi comuni della loro propaganda. E dunque il presidente ucraino Volodymyr Zelensky (e non Putin) è «un sordido dittatore», la Russia ha invaso l'Ucraina con fondate ragioni, ed era tempo che un giornalista occidentale desse voce «al presidente dell'altro Paese coinvolto in questa guerra» (notare bene: «coinvolto», non «aggressore»).
Su quest'ultimo punto, il portavoce di Putin Dmitry Peshkov ha corretto lo zelante amico americano: ci sono state ha precisato molte richieste di intervistare Putin, «ma noi non consideriamo imparziali i media occidentali, mentre Carlson ha sulla Russia posizioni diverse da quelle dei media anglosassoni». Insomma, l'hanno cercato con il lanternino e l'hanno trovato. Carlson, del resto, non fa una piega quando Putin ripete la sua tesi assurda di aver invaso l'Ucraina per «salvare dal genocidio i russofoni del Donbass» e per «denazificare» un Paese dove l'estrema destra ha preso il 2% alle elezioni e il cui presidente è un ebreo.
I contenuti dell'intervista non sono ancora noti, ma non occorre molta fantasia per immaginarseli: Putin reciterà la parte mielosa del buon amico del popolo americano, che ama la pace proprio
come lui (qualcuno abbastanza ingenuo da credergli lo troverà). Per questo, spiegherà che non conviene continuare a fornire armi a Kiev: è il suo unico modo per vincere la guerra, e i servigi di un Carlson sono impagabili.
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