Cronaca giudiziaria

Clan e borghesia mafiosa hanno le mani su Milano

Le parole del Procuratore Viola riaccendono le luci sulle mosse dei boss: tra droga, contanti e omicidi

Clan e borghesia mafiosa hanno le mani su Milano

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«Milano ad agosto è la città dei miracoli», commenta un avvocato fuori da un Palazzo di giustizia semideserto. Il mese sabbatico ha svuotato la città (e qualche cella) ma non i suoi problemi di ordine pubblico, uno su tutti: chi comanda sotto la Madonnina? La capitale morale è da anni al centro di appetiti convergenti ma rimasti a lungo sotterranei. In questi ultimi anni, però, il conflitto tra le mafie che si contendono questo territorio ha conosciuto una recrudescenza di sangue rimasta, in parte, senza colpevoli. Nei giorni scorsi il procuratore capo di Milano Marcello Viola alla commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno delle mafie ha ribadito quello che in città sanno tutti: la ’ndrangheta calabrese fa il bello e il cattivo tempo, con la complicità della borghesia mafiosa che ne appoggia silenziosamente l’avanzata. Anche se da un lato ha ancora come principale fonte di reddito il narcotraffico, dall’altro ha subito «una mutazione genetica con le infiltrazioni nel settore economico-finanziario e nel mondo dell’impresa». Si sta ripetendo in Lombardia ciò che è già successo altrove. L’enorme capacità economica della mafia calabrese si coniuga con un territorio dove spostare e mascherare ingenti capitali con un click - passando per lo più inosservati - è un gioco da ragazzi. I capitali cash frutto dei traffici di droga non viaggiano (quasi) più in direzione Svizzera ma vanno in Germania e nei Paesi dell’Est, dove i boss calabresi comprano indisturbati pezzi consistenti di città e di quartieri. I soldi sporchi, quelli veri, viaggiano già online, ripuliti grazie ad alchimie contabili e criptovalute. «Oggi giocare sui crediti da bonus edilizi è più redditizio che rischiare con il traffico di droga», commenta un investigatore antimafia che da anni lavora con Dna, Dia e banche passando al setaccio le famose Sos, segnalazione di operazione sospetta, che la nostra normativa antiriciclaggio ha individuato come strumento prodromico alle indagini. «Una Sos è come una soffiata di una fonte, se c’è ciccia lo capisci solo se indaghi».

Ma serve tempo, e queste indagini ne portano via tantissimo. Intanto i soldi si muovono, grazie alla perizia di professionisti ingaggiati dalle cosche. Una complicità che ricorda quella degli anni Ottanta con Cosa nostra, con una rete che non si è certo smaterializzata ma si è adattata ai nuovi «padroni». Anche la camorra non sta con le mani in mano, anzi. Chi indaga sul fenomeno come Alessandra Dolci a capo dell’Antimafia milanese (e destinata a guidare la Procura di Bergamo, pare) sa che il punto forte è la ristorazione, perfetta lavatrice di contanti sporchi ma anche vetrina per attirare consensi. Non solo con l’offerta cheap del finger food che ha di fatto impoverito il salotto buono della città, ma anche quella medio alta, grazie a un’esplosione di locali post Expo 2015. Ci sono ragazzotti col portafoglio pieno cui i ristoratori spalancano le porte, c’è una movida notturna a base di festini, droga e security dei locali, ma c’è anche una movida diurna fatta di partite allo stadio, tra coca, panozzi e parcheggi, che a Milano ha già fatto delle vittime illustri. Come Paolo Salvaggio detto Dum Dum, freddato a Buccinasco a febbraio del 2022. O come Vittorio Boiocchi, capo ultras dell’Inter sorvegliato speciale, freddato da cinque colpi di pistola a fine ottobre 2022. Al telefono diceva di guadagnare 80mila euro al mese per i suoi affari al Meazza. Nel 2019 qualcuno ha provato a fare lo stesso con Enzo Anghinelli: un agguato in centro, una sparatoria degna di un saloon del Far West più che del Salone di Milano che sarebbe iniziato quel giorno. Anche questa vicenda è rimasta senza colpevoli, anche se la Procura si è fatta un’idea precisa, basta leggere tra le righe nell’inchiesta Barrios, che però al momento non troverebbe i giusti riscontri. E forse non li troverà mai. Forse neppure chi ha sparato sa perché.

«Ma se la ’ndrangheta controllasse “militarmente” il territorio non sarebbe successo», è il ragionamento di un investigatore che sta per lasciare il filone antimafia. Quindi? Non è un mistero che una buona fetta del traffico di droga sia in mano agli albanesi, a gang di balcanici, a ronde di marocchini e tunisini. Carne da cannone da sacrificare, non certo preziosi picciotti, costosi da mantenere in carcere. C’è un filone investigativo che vedrebbe le mani degli albanesi in un porto dell’Ecuador, Paese cruciale nei traffici di stupefacenti. La ’ndrangheta - che da del tu ai narcos dagli anni Ottanta - li lascia fare o la situazione è sfuggita loro di mano? Difficile saperlo. Ci sarebbe anche da chiedersi che cosa è oggi la ’ndrangheta.

Se quell’organizzazione unitaria che le ultime inchieste di mafia, da Crimine-Infinito a Malefix e poco altro (purtroppo), avrebbero dovuto decapitare o se un magmatico sottobosco criminale di manovalanza militare mal gestita, in cui qualche sfigato mafioseggia, vantando lignaggi e investiture inesistenti in qualche bar del centro. Mentre i colletti bianchi pasteggiano indisturbati

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