Se l'altezza di un grattacielo è un reato

Nel mondo reale quello in cui si costruiscono ponti, ospedali, scuole e anche grattacieli ogni progetto nasce da una visione, da un dialogo tra chi progetta e chi decide

Se l'altezza di un grattacielo è un reato

Se l'altezza di un grattacielo diventa misura della moralità pubblica, allora il problema non è solo urbanistico, ma profondamente culturale. E se a questa altezza si applica una scala di giudizio inversamente proporzionale all'etica, allora la politica rischia davvero la perdizione.

È questo il paradosso che emerge dal caso milanese che coinvolge, tra gli altri, l'architetto Stefano Boeri. Nella sua autodifesa affidata ai social si coglie il senso profondo di quanto sta accadendo: non si sta processando solo un presunto illecito, ma un'idea stessa di città, un modello di sviluppo, una visione di futuro. Sotto accusa non è tanto una pratica amministrativa, quanto il risultato che essa ha prodotto: una Milano che cresce, che si rinnova, che guarda in alto. Troppo in alto, evidentemente, per chi preferisce una politica che si inginocchia anziché progettare.

Il messaggio è chiaro già nella frase-chiave di Boeri: "Non sono un cementificatore". È una dichiarazione che non dovrebbe servire, e invece è diventata necessaria. Perché nel dibattito pubblico italiano e ancor più in quello giudiziario l'altezza di un edificio non è più un tema da affidare ad architetti, urbanisti o amministratori, ma un possibile capo d'imputazione. L'idea che la verticalità possa essere un valore, o almeno una necessità in tempi di urbanizzazione sostenibile, viene capovolta e degradata a sospetto. Ma davvero l'altezza è un reato? Davvero il modello urbanistico di una città può essere discusso in tribunale, invece che in consiglio comunale? Se così fosse, si dovrebbe riscrivere la storia di Manhattan, di Dubai, o anche della stessa Milano degli ultimi vent'anni, riducendola a un elenco di colpe. Eppure non serve un trattato di urbanistica per comprendere che, in un Paese dove si invoca la tutela del suolo e si teme l'espansione incontrollata, costruire in verticale è spesso la scelta più responsabile: si ottimizza lo spazio, si riduce il consumo di terreno, si moltiplicano i metri quadrati abitabili senza divorare territorio. E allora perché tutto questo viene raccontato, oggi, come una colpa? Forse perché l'Italia, da tempo, ha smesso di distinguere tra ciò che è legale, ciò che è opportuno, e ciò che è solo impopolare. In un clima di moralismo sempre più dominante, il "fare" è diventato un atto sospetto, mentre il "non fare" viene santificato come atto di prudenza etica. Soprattutto se a fare sono i privati, il mercato, o professionisti capaci di influenzare le decisioni pubbliche. Il principio di realtà viene sacrificato sull'altare della purezza ideologica. E qui si inserisce il secondo passaggio, altrettanto significativo, della difesa di Boeri: il tentativo di giustificare il proprio ruolo nel dibattito pubblico come architetto coinvolto nei processi decisionali della città. È un'ammissione che, in un Paese normale, non dovrebbe esistere. Perché in una democrazia matura, il dialogo tra pubblico e privato, tra professionisti e amministratori, non è un sospetto, ma una necessità. È il sale del processo decisionale.

Nel mondo reale quello in cui si costruiscono ponti, ospedali, scuole e anche grattacieli ogni progetto nasce da una visione, da un dialogo tra chi progetta e chi decide. L'idea che un architetto, incaricato da un committente, non debba usare la propria autorevolezza per spiegare, convincere, incidere, è semplicemente grottesca. Nessuno dovrebbe sentirsi in colpa per aver partecipato, con la propria competenza, alla costruzione di una città migliore. E invece proprio questo il reato di "traffico di influenze" è il prodotto di una legislazione che, negli ultimi dieci anni, ha trasformato ogni interazione tra interessi legittimi in un potenziale caso giudiziario. Un impianto normativo ambiguo, spesso modellato sull'emotività pubblica più che sull'efficacia amministrativa, ha aperto le porte a una giustizia che, anziché limitarsi a perseguire reati, si sente investita del compito di giudicare comportamenti, stili, modelli.

Il risultato è una giustizia che non punisce solo chi ha violato la legge, ma chi ha avuto successo. Che non sanziona la corruzione, ma la capacità di incidere.

Sullo sfondo resta un'altra questione che riguarda tutti noi: la sorte delle città italiane. Milano, unica metropoli italiana in crescita secondo l'Istat, è oggi oggetto di una criminalizzazione del suo stesso sviluppo. Una città che ha saputo attrarre investimenti, migliorare i servizi, alzare lo standard della qualità urbana, viene ora processata per il proprio successo. Con un ribaltamento inquietante: si condanna l'aumento dei valori immobiliari senza offrire alternative. Ma se in una città che cresce si vieta di costruire, i prezzi saliranno inevitabilmente. È un'equazione che persino chi predica l'equità sociale dovrebbe essere in grado di comprendere.

Del resto, il nostro Paese ha già sperimentato le conseguenze della pianificazione ideologica: i quartieri dello Zen a Palermo, le Dighe di Begato a Genova, testimoniano un'architettura figlia di buone intenzioni ma

incapace di generare bellezza, vivibilità o inclusione. Oggi, in nome di un nuovo moralismo, si rischia di ripetere lo stesso errore, ma al contrario: per paura di favorire i ricchi, si blocca lo sviluppo anche per i poveri.

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