Condividere è una cura. E lo strazio fa parte delle nostre esistenze

Un limite al desiderio di avere compassione non va messo. Altra cosa è il compatimento

Condividere è una cura. E lo strazio fa parte delle nostre esistenze

Due giovani l'uno accanto all'altro, in una intensa foto in un bianco e nero contrastatissimo. Sono belli, sono ricchi, sono famosi, sono invidiati, si amano. Due tipi da copertina. Ma, ehi!, piangono. Sul petto di lei un cartoccio di tessuto avviluppa il corpicciuolo di Jack, il loro terzo figlio, sbianchettato da un destino che, quando si sveglia e decide di fare lo stronzo, non bada alla fama, alla bellezza e alla felicità interna lorda di chi capita sotto.

John (Legend) e Chrissy (Teigen) hanno perso il loro terzo figlio, a cui avevano già dato un nome perché dare un nome a qualcosa è un po' come possederla già e loro avevano fretta di abbracciarlo. Ma lo hanno abbracciato da morto prima che nascesse, l'omega che scavalca l'alfa. Non potevano scegliere più niente a quel punto, ma una cosa hanno voluto farla: rendere universale il loro pianto. E qualcuno ha così ghignato: hanno trasformato un lutto in spettacolo.

No.

Che nessuno - al netto del codice penale, ci mancherebbe - tracci il confine tra quello che si può o non si può condividere sui social in nome di un pudore che è soltanto l'ultimo indirizzo conosciuto dell'ipocrisia. Il dolore non è una cosa di cui vergognarsi, e tenerlo lontano dai social - anche dal più frivolo e fotogenico, Instagram - non ci rende migliori. O non ce ne tiene al riparo. La privacy violata? Ognuno del proprio privato fa l'uso che vuole. E poi: sono più osceni, molto più osceni certi ammiccamenti con il filtro, certe boccucce sceme sceme, certi piedi con unghie laccate alla fine di un lettino ripresi con scurrile anticompiacimento, certi piatti di pasta scotta e malcondita postati ogni giorno da chi fa della mediocrità e non del dolore - che purtroppo mediocre non è mai - uno spettacolo. Per non parlare dei leoni da tastiera che la sera andando a dormire si tolgono la dentiera e masticano la pappetta del loro rancore. Roba già detta.

Sì dirà: questo è benaltrismo. Ma no: questa è compassione, parola nobile che noi scambiamo invece spesso per il suo cugino tamarro, il compatimento. Io sono con Chrissy, io sono con John. E non solo per quel mercoledì di dolore immortalato in bianco e nero. Ma per aver cercato nell'urlo del proprio dolore il sollievo dell'umana pietà, la cura impossibile a un finale già in archivio.

Tornerà il sole nella vita di Chrissy e John, anche se un po' di brezza li spettinerà sempre.

Intanto mi hanno insegnato, ci hanno insegnato, che la verità viene prima di tutto, e quando arriva spesso puzza di sangue e morte, quasi mai è un pranzo di gala. Un pranzo di piatti da fotografare con il filtro e postare su Instagram. Like.

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