O si paga di più o si mangia di meno. È l'effetto perverso dell'inflazione sul comparto agroalimentare. Da una parte, l'incremento dei costi di produzione sta mettendo in ginocchio molte aziende. Dall'altra parte, alcune multinazionali stanno attuando contromisure choc: mantenere invariati i prezzi riducendo le quantità di prodotto vendute, ossia la cosiddetta shrinkflation, crasi di shrink («restringere») e inflation («inflazione»). Coldiretti ieri stilato una classifica dei maggiori rincari dei generi alimentari. Sul podio gli oli di semi (+23%), seguiti da verdura fresca (+17,8%) e burro (+17,4%). Rincari a doppia cifra anche per pasta (+13%), frutti di mare (+10,8%) e farina (+10%). Seguono carne di pollo (+8,4%), frutta fresca (+8,1%), pesce fresco (+7,6%) e gelati (+6,2%). Esce dalla top ten il pane (+5,8%). L'aumento dei costi «colpisce l'intera filiera agroalimentare, con i compensi riconosciuti agli agricoltori e agli allevatori che non riescono ormai neanche a coprire i costi di produzione», ha evidenziato Coldiretti. L'ad di Filiera Italia Luigi Scordamaglia ha rimarcato che «circa un'impresa su tre è costretta a chiudere o rallentare l'attività come le stalle da latte che chiudono per i costi superiori al prezzo riconosciuto», mentre tutto il comparto della zootecnia è messo a dura prova dalle normative Ue sulla riduzione delle emissioni che aumentano ulteriormente i costi.
Ecco che per reagire a questa situazione i grandi gruppi rispondono con la shrinkflation. Negli Stati Uniti le confezioni di pasta - prodotta con il grano tenero, di cui l'Ucraina è tra i principali produttori al mondo - sono rimaste le stesse, così come i prezzi, ma il peso netto all'interno è diminuito.
La britannica Cadbury ha ridotto del 10% le dimensioni delle sue barrette di cioccolato Dairy Milk mantenendo però lo stesso prezzo di vendita. Qualche anno fa, a causa del caro cacao, furono rimpicciolite le barrette «Toblerone», scatenando le ire dei consumatori habitué.
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