Quando sui giornali si legge "accordo Meloni-Schlein sulla violenza sessuale" c'è da capire se ci sia un errore da qualche parte, e, diciamo subito, all'apparenza l'errore non c'è. In Commissione Giustizia hanno approvato un emendamento con l'obiettivo di misurare la violenza sessuale non solo sulla base appunto della violenza (minaccia, abuso, costrizione) ma anche sull'assenza di "consenso libero e attuale", termini che possono ridisegnare un reato che ha portato spesso a sentenze oscillanti, interpretazioni discutibili e divisioni circa la psicologia di vittime vere o presunte. "Consenso libero e attuale" significa che conta se la persona vuole realmente ciò che accade "qui e adesso" e quindi non ieri, non mezz'ora fa, non "ero convinto che". Il consenso non è un gettone che si inserisce a inizio serata, ma dev'essere continuo e revocabile: l'obiettivo è illuminare le zone grigie in cui si celi una violenza ambigua, tipo una donna che si blocca a metà rapporto perché si spaventa, un uomo che non dice esplicitamente "no" ma smette di partecipare e resta immobile, o una persona che ha bevuto troppo o si è drogata e perciò è bloccata e vulnerabile, o, ancora, un rapporto di coppia in cui uno dei due accetta per quieto vivere o per paura di ritorsioni. I promotori dell'emendamento dicono che in certi casi il consenso non è più libero e quindi è giusto che la legge riconosca l'asimmetria dei rapporti di forza (anche fisica) e tuteli chi non riesce a opporsi a qualcosa che non voleva. Sin qui tutto bene, sembra tutto ovvio, pur se, va detto, la nostra legge ora non funziona così: solo i giudici valutano per esempio la mancanza di una reazione immediata di lei, se "non si divincolava abbastanza", se non opponeva abbastanza "resistenza". Ma, ripetiamo, sin qui tutto bene: l'Italia non farebbe che allinearsi alla giurisprudenza internazionale: è la maniera in cui potrà farlo, non essendo il nostro l'Italia né la Germania né la Svezia, che farà infatti la differenza.
È indubbio che la benedizione politica "Meloni-Schlein" sia un buon segno, ma bisognerà vedere come l'emendamento si tradurrà in un Paese in cui concetti anche semplici, nelle aule di tribunale, diventano dei test di Rorschach interpretativi (quelli delle macchie) e dove ogni parola non definita con precisione crea più discrezionalità che mai. Confessiamo qualche pregiudizio, perché dietro all'emendamento si muovono anche dei nomi (tra questi Laura Boldrini, Alessandro Zan e Giulia Pastorella) che da tempo fanno battaglie sul linguaggio, sulle molestie e appunto sulla centralità del "consenso" in coerenza con una visione ideologica smaccatamente woke, qualcosa che spinga verso una normativa di tipo anglosassone e che nasce da un'impronta ideologica molto marcata; non stupisce che un certo tessuto attivista (Amnesty, campagna #iolochiedo) stia pur esso salutando l'accordo come una vittoria culturale. Insomma: da una parte abbiamo un governo che su femminicidio e violenza sessuale ha legiferato ma ha lasciato ogni porta aperta, come dimostra questo emendamento, dall'altra sappiamo che certe agitatrici e agitatori di casi mediatici, e di neo femminismi normativi, non dormono riposano. Nel mondo anglosassone del dopo #MeToo alcune università hanno introdotto regolamenti in cui si richiede un "sì esplicito" a ogni fase del rapporto, sono nate persino delle app per registrare il consenso, insomma, basta poco per calpestare il terreno scivoloso in cui qualsiasi ambiguità diventa un rischio penale.
Ed è un attimo cedere a delle riforme che nascano più da pressioni culturali e simboliche che da un lavoro serio sulla struttura dell'articolo 609-bis. Quindi attenzione, perché una legge troppo calata dall'alto potrebbe generare più confusione che certezza nelle nostre aule di giustizia.