Paradosso: in tutto il mondo che freme per la ripartenza post-pandemia c'è un enorme serbatoio di energia proprio in mezzo al Mediterraneo, ma per una serie di annose (anzi decennali) controversie di diritto risulta per lo più inutilizzabile. Si tratta della zona Est del Mare Nostum, al largo di Libano, Israele, Grecia, Turchia, e si tratta di una serie di giacimenti offshore che potrebbero risolvere le questioni energetiche per un bel po', e in cui, tra gli altro gli attori italiani hanno diversi interessi. Cinque nuovi giacimenti, scoperti tra il 2009 e il 2019, vari miliardi di metri cubi di combustibile, tra petrolio e gas, un valore stimato di oltre 200 miliardi di euro.
Un'occasione irripetibile perchè il Mediterraneo si renda indipendente da fonti di energia lontane e costose, e un'occasione di sviluppo politico, sociale, economico, civile, per i paesi che li ospitano, nonché per gli operatori energetici impegnati nell'area. Tutto fermo, perché i confini marittimi tra i paesi citati non sono stati ancora ben definiti, e perché non tutti i paesi accettano lo stesso tipo di legislazione. Rompicapo irrisolvibile? No, grazie a uno studio da poco pubblicato dall'American University dell'Issam Fares InstituteL (IFI) di Beirut. Lo studio, corposo, preciso, pieno di dati e di proposte per dirimere la questione, si intitola «Sbloccare la pace e la prosperità. Come risolvere la questione dei confini marittimi nel Mediterraneo dell'Est» (titolo originale: Unlocking Peace and Prosperity: How to resolve maritime border disputes in the Eastern Mediterranean Sea). L'autore è un veterano delle analisi energetiche, Roudi Baroudi, una vita da manager nell'ambito oil&gas ed energia, con prestigiose esperienze come esperto politico-energetico per la Commissione Europea, la Banca mondiale, l'Arab fund for economic and social development, eccetera.
La chiave di tutto, dal punto di vista legale, è l'assunzione da parte di tutti i paesi coinvolti, del presupposto che ha guidato le Nazioni Unite nella ricostruzione post seconda guerra mondiale: la pacifica risoluzione delle dispute. Vale a dire ricorrere, quando manchi un diritto definito (come spesso succede per la complicata questione dei confini marittimi) a una mediazione pacifica che tenga conto delle regole accettate, di fatto, da tutti i convenuti. Una di queste è la Unclos, la convenzione delle Nazioni unite per la legislazione marittima, che, sebbene non accettata formalmente da tutti, rimane lo standard mondiale a cui i paesi si sottopongono. E in questo caso c'è ampio margine perché la diplomazia possa lavorare sul problema. L'altra risorsa è la tecnologia. I sistemi di triangolazione satellitare permettono di definire in maniera precisa, al metro, quali siano le pertinenze dei vari paesi in tema di confini, anche in mare, ovviamente. Il corposo studio di Baroudi descrive punto per punto, con tanto di cartine perfettamente accurate, quale sia lo stato dei confini marittimi, percorre la storia delle dispute territoriali nell'area, e infine, offre, già pronta, una possibile delimitazione degli spazi marini sulla base dei rilevamenti geografici e telemetrici. Come dire: risolve, punto per punto, tutte le varie questioni e offre la risposta a incertezze dal peso economico/politico gravosissimo, su un piatto d'argento.
Nel «best case scenario», i miglioramenti economico finanziari per i paesi che raggungerebbero un accordo avrebbero una ricaduta più che positiva sui sistemi educativi, sanitari, dei trasporti in tutta l'area.
Con una ulteriore ricaduta in termini di politica internazionale: una stabilità politica di cui, in certe aree del Mediterraneo, si sente molto la mancanza. Un incentivo finalmente concreto a minimizzare le tensioni politico/diplomatiche/militari che bloccano tutta la regione.
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