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Il dibattito appiattito dalla dottrina woke

Sono passati dunque più di cinque anni, un tempo sufficiente per chiederci come si sia trasformata la dottrina woke in rapporto al suo propulsore, e più in generale agli afroamericani (e non solo)

Il dibattito appiattito dalla dottrina woke
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Da circa una settimana, negli Stati Uniti si è tornati a parlare con coraggio dell'ideologia woke, a partire dall'evento che le ha dato la più forte risonanza, facendola diventare in breve un movimento di portata mondiale. È il 25 maggio del 2020, lo ricorderemo bene, e un uomo di colore, George Floyd, viene bloccato per le strade di Minneapolis. Un agente di polizia gli tiene premuto il ginocchio contro il collo, ed ecco che George Floyd inizia a contorcersi, annaspa, non riesce a respirare, infine muore: muore di una morte naturalmente registrata dai passanti e subito condivisa via social, diventando celebre in qualunque angolo del pianeta e, cosa ancora più rilevante, venendo presa e risemantizzata da numerosi gruppi, specie quelli afferenti alla sigla Lgbtq+, che leggono in quel destino il proprio percorso di oppressione.

Sono passati dunque più di cinque anni, un tempo sufficiente per chiederci come si sia trasformata la dottrina woke in rapporto al suo propulsore, e più in generale agli afroamericani (e non solo). Su questo ha riflettuto con grande acutezza il professor Glenn Loury, fra gli analisti più lucidi dell'argomento, afroamericano anch'egli ed economista della Brown University. Dalle sue osservazioni, pubblicate su Unherd in un pezzo che sta facendo storia, emerge quanto il dibattito woke a antiwoke, diventato ora più una distorsione che una possibilità comunicativa, abbia svuotato o perfino cancellato quegli spazi di espressione e valorizzazione tanto duramente conquistati dalle persone di colore, la cui identità è ora dibattuta ricorrendo a due opposti, e cioè o con estrema sofferenza o con ancor più estrema insofferenza (il che è una contraddizione assoluta, promettendo il woke la lotta a ogni binarismo). L'essere neri perciò o è ferita o è fastidio, senza alternative, anzi solo tramite una polarizzazione che depriva questa condizione del resto, inclusa la sua cultura, continua il professor Loury, ma anche "la sua improvvisazione, il suo umorismo, le sue ironie, le sue storie di migrazione, impegno e reinvenzione".

È un discorso che tocca anche l'Italia, dove il calderone woke sottrae complessità, bellezza, stratificazione e molto altro alla comunità africana, rendendola vittima di stereotipi. Lo dimostra un recente sondaggio curato da Ipsos per l'organizzazione Amref, da cui emerge quanto poco gli italiani ne sappiano in merito, e come associno spesso l'africanità a concetti quali "povertà", "malattie", "guerra", come se non esistesse altro.

Non è nemmeno un caso che in italiano fatichiamo ancora a utilizzare gli equivalenti delle parole inglesi "whiteness" e "blackness" (ovvero "l'essere bianchi" e "l'essere neri"), quasi si avesse vergogna o paura di servirsene, quando paradossalmente è proprio usandola una parola che si dà legittimazione alla realtà che esprime. "Il significato è potere": ce lo insegna David Foster Wallace, quindi è precisione. Il discorso woke lavora invece sul contrario. Sulla debolezza, l'appiattimento, l'approssimazione.

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