Politica estera

Le donne d'Islanda in sciopero per i salari (e c'è pure la premier)

Stop contro il gap di genere, in un Paese considerato un modello di equità. Si ferma anche la Jakobsdóttir

Le donne d'Islanda in sciopero per i salari (e c'è pure la premier)

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Oggi le donne islandesi (premier inclusa) non muoveranno un dito. Né a casa, né in ufficio o a scuola o in negozio o ovunque lavorino o concedano le loro abilità. Immobili, imperturbabili, inscalfibili. Nell'aggressività passiva di uno sciopero che giuridicamente non è tale (i sindacati non potranno quindi attingere ai propri fondi per compensare la giornata di lavoro mancata) ma che verosimilmente i datori di lavoro concederanno senza alcuna decurtazione in busta paga.

Oggi metà Islanda (anzi più di metà perché assieme alle donne scenderanno in campo anche le persone non binarie) incrocerà le braccia. Perché per rimanere in cima tocca darsi da fare: vietato accontentarsi, vietato mollare la presa. È vero che l'Islanda è il primo Paese al mondo per quote rosa nei consigli d'amministrazione (con una rappresentanza del 47,1% a fine dell'anno scorso), ma non basta. Oggi il Primo Ministro Katrin Jakobsdóttir e tutte le signore del Paese che guida, sciopereranno per chiedere di essere pagate quanto gli uomini e di mettere fine alla violenza di genere. Si chiama kvennaverkfall (letteralmente sciopero delle donne), e l'ultima giornata del genere, in Islanda, risale al 1975, quindi a quarantotto anni fa, quando i movimenti femminili e femministi islandesi iniziarono la loro battaglia compatti. Allora, quello che le Nazioni Unite definì «l'Anno delle Donne», scioperò il novanta per cento delle signore con il risultato di paralizzare l'intero Paese. L'effetto, alla lunga, fu deflagrante: il soffitto di cristallo era stato infranto e nulla fu più come il giorno precedente, tanto che nel 1980 venne eletta democraticamente la prima presidente donna, Vigdis Finnbogadottir. Da allora, furono sei gli scioperi rosa che seguirono (sette con quello di oggi) per continuare a puntellare i diritti conquistati. Non a caso, l'Islanda, è il primo Paese costantemente al primo posto nel mondo per la parità di genere, ma le donne non si accontentano. Ora chiedono l'eliminazione del gap retributivo (che in Islanda è del 21%) e, fa sapere Freyja Steingrímsdóttir, la portavoce degli organizzatori dello sciopero «Vogliamo che il contributo di tutte le donne (islandesi, straniere, disabili) e delle persone non binarie venga riconosciuto e premiato». Oggi alle 14, quindi, nel centro di Reykjavík, è prevista l'adunata e la mobilitazione sarà imponente (pare circa 25mila persone nella Capitale ma molte ancora prenderanno parte ad altri dieci eventi nel resto del Paese), tanto che molti servizi non saranno garantiti.

«Avendo la reputazione globale che ha, l'Islanda ha la responsabilità di assicurarsi di essere all'altezza di tali aspettative», ha spiegato Steingrímsdóttir. Come dire, mai sedersi sugli allori del proprio vantaggio, se le donne islandesi smettessero di battersi per i propri diritti e per quelli di tutto il genere femminile al quale hanno fatto da apripista, finirebbero col perdere terreno. Lo spiega bene Steingrímsdóttir: «Ci hanno sempre detto che siamo il Paese più evoluto e che dovevamo accontentarci di quello che avevamo ottenuto.

Invece, proprio per questo dobbiamo essere ambiziose, rinnovare la nostra lotta ed essere un modello per gli altri».

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