La politica estera di Donald Trump è poco chiara e, dunque, inquietante. Bisogna ricordare che esiste una tradizione che chiameremo «di scuola», secondo cui gli Stati Uniti d'America e il Regno Unito sono sempre stati pronti all'uso della forza in caso di chiusura forzata delle rotte marittime e delle vie di commercio. Il Giappone fu costretto ad imboccare la via della modernità alla fine dell'Ottocento perché gli olandesi e gli inglesi avevano costretto il misterioso impero a lasciare passare le loro navi. Oggi un problema simile si sta verificando con la Cina, che costruisce isole artificiali lontane dalla propria costa, le dichiara costa geografica e allontana di molte miglia la frontiera delle acque internazionali. Persino Obama, che ha sempre rifiutato confronti militari, ha spedito molte navi da guerra a contestare questa appropriazione indebita. Inoltre, la vecchia scuola ha sempre avuto un occhio di riguardo (negativo) nei confronti dei vecchi imperi: da quello austroungarico a quello russo e poi il tedesco ma anche gli imperi coloniali francese inglese, belga e portoghese. La Seconda guerra mondiale e poi la Guerra fredda dal 1947 al 1992 avevano molto semplificato la situazione precedente la Prima guerra mondiale, che vide per la prima volta le uniformi americane sui fronti europei, compreso il Piave nel 1917, con un minaccioso interventismo del presidente Wilson durante le trattative per la pace e un nuovo ordine mondiale. La Guerra fredda fu certamente anche una vivacissima guerra ideologica fra capitalismo e comunismo, ma tutto l'apparato ideologico non poteva nascondere la vera natura di quella guerra: uno scontro geopolitico fra Usa e Urss che si svolgeva contemporaneamente su tutti i mari, cieli, frontiere e fronti politici interni. Neanche l'arte sfuggiva al controllo politico-militare dello scontro fra le superpotenze, armate in modo tale da poter far scomparire la faccia della terra molte volte. Finita la Guerra fredda e dopo un periodo di turbolenze sanguinose e incerte, la vecchia Russia, dai confini molto ridotti rispetto a quelli della vecchia Unione Sovietica, si è ritrovata saldamente nelle mani del presidente Vladimir Putin e del suo gruppo politico di comando ampiamente compensato con i proventi della vendita di ener- gia, gas e petrolio. La Russia di Putin tuttavia ha speso una parte considerevole del suo bilancio per rinnovare un sistema militare obsoleto e fuori moda, trasformandolo in un apparato capace di competere anche sul piano dell'immagine - l'abbiamo visto con l'intervento russo in Siria - con quello americano. Putin è certamente un mago dell'immagine e la trasformazione che ha operato sul suo Paese ha fatto sì che molti altri, che aveva- no sempre diffidato dei russi, cominciassero a trovarli nuovamente interessanti. Per un curioso ma prevedibile sviluppo dei sentimenti e dei risentimenti dello scorso secolo, il leader russo è diventato un divo sia della vecchia sinistra europea, che della destra cosiddetta «populista», come quella della Le Pen e di Salvini. Questo schieramento di nuovi sentimenti non comprende e mai comprenderà l'Inghilterra - che Putin chiama «l'isoletta» -, che si considera fin dagli anni Quaranta in conflitto permanente con i russi.
QUESTIONE DI FEELING
E Trump? Qui sta il punto più delicato: Trump sembra aver scelto naturalmente Putin così come Putin sembra aver scelto con disinvoltura Trump. Si considerano due realisti, due che non vogliono rom- persi le scatole a vicenda, cosa questa che allarma moltissimo i Paesi dell'Europa centrale e del Nord, dalla Norvegia alla Polonia, dall'Ucraina ai Paesi Baltici che temono di essere di nuovo mangiati in un solo boccone dalla potenza russa nel momento stesso in cui gli americani dovessero mollare il fronte europeo e anche quello mediorientale. Dunque Trump non fa parte della «vecchia scuola» americana che ha sempre istruito i suoi diplomatici e militari a «contenere» la Russia, ma di una nuova scuola secondo cui quel che è stato, è stato, e chiudiamola lì. Anche questo atteggiamento di Trump, così aperto verso Mosca («Appena divento Presidente invito subito Putin alla Casa Bianca») ha mandato di traverso la sua presunta nomination alla classe dirigente e tradizionalista del Partito Repubblicano, secondo cui la Russia è da tenere costantemente d'occhio e con un atteggiamento veramente dissuasivo: cioè indicando linee che non devono essere superate ed essendo pronti a reagire se ciò accadesse. Quella è la vecchia scuola, comune sia ai repubblicani che ai democratici. Quando John Fitzgerald Kennedy sfidò Nikita Krusciov alla terza guerra mondiale se non avesse subito ritirato i missili atomici da Cuba, la sua biografia di democratico diventò immediatamente la biografia condivisa di un vero americano al di sopra dei partiti. Mettersi fuori dalla tradizione «di scuola» nei confronti della Russia, può portare a conseguenze estreme. Benché poco se ne parli, esiste in Europa una forza mobile americana costituita da poche brigate corazzate che, usando materiali militari di Paesi europei come l'Ungheria e con la silenziosa partecipazione della Gran Bretagna, esercita un deterrente sulla frontiera russa. È una guerra fredda molto silenziosa, ma anche molto drammatica e attiva. I Paesi di quelle regioni cominciano a produrre serie televisive come «Okkupiert» («Occupati») in cui ad uno ad uno i Paesi europei del Nord cadono sotto il controllo russo senza vere operazioni militari ma con pressioni, ricatti energetici e quinte colonne all'interno dei Paesi minacciati. «È un bel tipo, mi piace», disse Putin all'inizio della campagna elettorale americana quando gli chiesero che ne pensasse del tycoon newyorkese. Poi aggiunse che era un personaggio molto folcloristico ma anche un sincero patriota del suo Paese. Luce verde. Trump ha risposto più volte di essere grato a Putin che aveva detto sul suo conto very nice things e non ha mai manifestato nei confronti della politica russa alcuna riserva o atteggiamento «contenitivo». L'atteggiamento contenitivo della «vecchia scuola» cade in eredità della sola Clinton, molto più propensa agli interventi militari di quanto lo sia stato Obama e più fedele alla linea che aveva intrapreso suo marito Bill quando, d'accordo con Massimo D'Alema presidente del Consiglio, mandò dalle basi italiane aerei e missili a bombardare la Serbia e la sua capitale Belgrado, che porta ancora i segni di quegli sventramenti. Le lobby militari e le fabbriche per le forze armate sostengono ovviamente più la Clinton di Trump.
In compenso la potentissima National Rifle Association, la prima fabbrica di armi per intrattenimento, fa campagna ormai apertamente per Trump, difensore convinto del secondo emendamento della Costituzione americana che proclama il diritto del singolo cittadino di portare armi e di difendere se stesso e la sua proprietà.(5. Continua)
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.